E’ un gran bel mal di pancia quello che “cova” sulla scrivania di Giorgia Meloni: entro il 30 novembre di quest’anno, il Governo deve decidere formalmente cosa fare del progetto strategico di scambi commerciali con la Cina di Xi Jinping, sottoscritto dal Governo Conte 1 nel 2019, in un contesto  mondiale molto, molto diverso da quello attuale.

L’Italia può rinnovare il protocollo d’intesa o può disdirlo.

Ma cosa comportano tali opzioni per il nostro Paese?

Il dossier, apparentemente, potrebbe sembrare un tipico accordo di politica internazionale che interessa la diplomazia e i vari governi coinvolti: insomma una questione lontana dagli occhi e dalle orecchie dei cittadini dei singoli paesi.

Invece, come vedremo, la decisione sul dossier “la Via della Seta” tocca profondamente tutti noi cittadini-consumatori in quanto stabilisce dei principi che dovrebbero agevolare e promuovere gli scambi tra la Cina e l’Italia,  con effetti positivi sulla bilancia commerciale e finanziaria dei due paesi… con ovvie conseguenze sul nostro borsellino.

Il problema però non è soltanto di natura economica ma, nell’attuale contesto internazionale, di politica strategica.

Mantenere infatti una stretta alleanza con la Cina, in questo momento, potrebbe significare lo scatenarsi di gravi problemi di relazioni con gli Stati Uniti e anche con molti paesi dell’Unione Europea.

Quando il Governo Conte 1, nell’epoca pre-pandemica … sembra un secolo fa… decise di sottoscrivere l’intesa con Pechino, la decisione comportò già uno shock all’interno del fronte occidentale: seppure in un contesto diverso, l’Italia fu l’unico Paese dell’Unione Europea ad aprire le proprie frontiere ad un possibile sviluppo degli investimenti cinesi con tutte le conseguenze in termini di sicurezza e di contaminazione delle strategie politiche cinesi nel nostro territorio.

Il protocollo prevede un rinnovo automatico, salvo disdetta, da comunicarsi da una delle parti entro il 30 novembre 2023.

In questi quattro anni le geo-mappe politiche sono profondamente cambiate e sono in corso ulteriori mutamenti: cerchiamo di capire cosa comporterebbe per il nostro Paese la scelta di proseguire l’accordo privilegiato con i cinesi o quella di disdirlo.

I dati appena pubblicati dai due massimi centri di analisi sulla Cina (Rhodium Group e Merics – Mercator Institute for China Studies) indicano che il controverso accordo del 2019 non ha in realtà dimostrato di aprire strade particolarmente privilegiate per il nostro Paese.

Negli ultimi vent’anni l’Italia ha beneficiato di investimenti diretti cinesi per un valore vicino ai 16 miliardi di euro.

Un bilancio uguale a quello della Francia ma meno della metà di quello della Germania e ancora molto meno della Gran Bretagna.

Se analizziamo le conclusioni del report di Rhodium, possiamo verificare che i flussi di investimento di Pechino sono negli ultimi anni scemati ovunque. Certo, Pechino ha posto numerosi limiti agli investimenti esteri e soprattutto gran parte degli obiettivi dell’ultimo decennio sono stati fortemente ridimensionati a causa della pandemia e delle conseguenze sui risultati economici cinesi.

E’ vero che nel periodo post-Covid è ripreso il trend in aumento degli investimenti cinesi nel nostro Paese, ma è impressionante constatare quanto sia, contestualmente, aumentato l’import di prodotti cinesi passati dai 32 miliardi del 2020 ai 57 del 2022.

Insomma, non c’è dubbio che fino ad oggi la Cina abbia avuto più benefici dell’Italia nell’esecuzione dell’accordo denominato “Via della Seta”.

Ma cosa comporterebbe una eventuale disdetta?

L’eventuale mancato rinnovo sarebbe sicuramente considerato uno sgarbo da parte di Pechino e le aziende italiane che lavorano in Cina ne potrebbero pagare pesanti conseguenze.

Da fonti diplomatiche sembrerebbe che il Governo stia valutando l’opzione della disdetta dell’accordo: anzi, a Pechino, lo danno quasi per certo.

Le stesse fonti evidenziano come l’Italia nel 2024 sarà il Paese organizzatore del summit del G7 ed è difficile immaginare che possa presiedere il tavolo delle potenze occidentali confermando contemporaneamente la sua partecipazione al Bri (Belt and Road Initiative), lanciata proprio dal presidente Xi Jinping dieci anni fa dal Kazakistan.

Una nota del Ministero degli Esteri cinese sottolinea in queste ore come: “Da quando Cina e Italia hanno firmato il documento sulla Bri sono stati raggiunti risultati fruttuosi. Bisogna quindi sfruttare ulteriormente il potenziale dell’accordo”.

Insomma Pechino cerca in tutti i  modi di far cambiare idea al Governo Meloni promettendo un incremento di investimenti in Italia e, soprattutto, un considerevole aumento di import cinese di prodotti italiani.

Al di là delle due opzioni principali (la disdetta o il rinnovo tacito) potrebbe esistere però una terza via sulla quale, speriamo, il nostro Governo stia riflettendo.

Avviare una negoziazione per modificare il contenuto dell’accordo non arrivando alla sua cancellazione ma ad una sua nuova architettura: per esempio sostituire l’attuale versione con un testo  meno impegnativo politicamente, con contenuti squisitamente commerciali per settori e materiali non strategici, lasciando alla diplomazia del tempo per riscriverlo.

In alternativa, come abbiamo visto, qualora come sembra il protocollo venisse disdettato, il nostro Governo dovrebbe ottenere da tutti i membri del G7 un forte sostegno per bilanciare la probabilissima guerra economica bilaterale della Cina contro l’Italia.

I tempi sono stretti e Giorgia Meloni deve smarcare anche questa delicatissima questione.

Una ultima annotazione: il Governo, e questo monito vale soprattutto per i ministri troppo loquaci, deve astenersi in queste ore da ogni dichiarazione pubblica di cui poi potrebbe pentirsi o che comunque necessiti in futuro di correzioni di tiro.

Il lavoro dei prossimi giorni dovrebbe essere, a nostro avviso, quello di concentrarsi su quali eventuali contropartite offrire a Pechino per attutire il colpo e limitare le ritorsioni che sicuramente ci saranno.

Come ci insegnano i manuali della diplomazia internazionale, bisogna però che i vertici del governo cinese sappiano prima di tutti la decisione assunta dal Governo italiano, qualunque essa sia, e non vengano invece a saperlo dai media perché in tal caso la reazione sarebbe davvero pericolosa.

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