Una delle cose che deludono e frustrano maggiormente i “non contenti” della situazione italiana (gli altri, i “contenti”, almeno per ora si gustano il Governo del Cambiamento) ma anche europea e, perché no,  mondiale, è la mancanza di apparenti alternative.

L’onda lunga di sovranisti e populisti sembra inarrestabile. Non esistono opposizioni. Idee alternative. Modelli di società, di coesione sociale, diversi da quelli predicati e propagandati dai leader sovranisti e populisti: una società chiusa, sulla difensiva. Che alza muri per arginare i flussi migratori, la paura “dell’altro”, l’angoscia di perdere la propria identità, sicurezza, speranza per il futuro dei propri figli.

Le “ex-élite” al potere, con le ovvie e dovute diverse declinazioni stato per stato, i progressisti insomma, invece di concentrarsi su una proposta di “stare insieme” nuova, diversa, alternativa a quella dell’onda conservatrice e xenofoba, si limitano a scimmiottare gli slogan populisti; si dissanguano in lotte interne ai singoli partiti, incomprensibili per la maggioranza degli elettori; si frazionano su questioni nominalistiche o personalistiche.

Emanuele Felice, professore all’Università Gabriele D’Annunzio di Chieri-Pescara economista e storico, ha di recente, sulle colonne di Repubblica, fotografato, ad avviso di Pickett, correttamente la tragica tristezza di questo quadro di insieme che abbiamo appena tratteggiato.

La sua sintesi sottolinea la necessità di costruire una idea di società connessa con le aspirazioni, anche sentimentali, dei suoi cittadini. Bisogna avere un legame culturale, etico e filosofico con il proprio popolo per poterlo rappresentare in modo vincente e persuasivo. Bisogna dargli un senso di appartenenza ad una idea, ad un modello di società che rispecchi le sue ambizioni, le sue speranze, gli auspici di sicurezza e prosperità.

I quattro punti cardinali sui quali provare ad erigere, mattone dopo mattone, con fatica e pazienza, una vera e sostenibile politica alternativa alla deriva sovranista e populista, potrebbero essere i seguenti:

  • Una diversa redistribuzione della ricchezza: possibile se ci fosse la volontà politica di metterla in atto.
  • Una tutela dell’ambiente sostenibile e narrata in modo comprensibile per i  cittadini.
  • Una difesa dei diritti civili adeguata alla sfida della rivoluzione tecnologica in atto.
  • Una visionaria politica dell’innovazione che riequilibri in modo sensato tecnologia, diritti individuali, etica e rispetto della dignità degli esseri umani.

Tali fondamenta devono mirare ad una società aperta ed inclusiva, in cui la globalizzazione non sia una minaccia ma una opportunità. L’intelligenza artificiale uno strumento per migliorare le nostre esistenze non per distruggere milioni di posti di lavoro. La tutela dell’ambiente non uno slogan trito e ritrito, ma una vera priorità della politica economica mondiale sia per l’impatto sui cambiamenti climatici in essere, sia per la creazione di nuovi posti di lavoro alternativi ai robot.

Insomma ad un modello di società non mirato ad una decrescita felice, ad un “piccolo mondo antico”, ma ad una società aperta che vede nell’inclusione un valore, nell’innovazione uno stimolo, nella tutela dell’ambiente una opportunità e non solo una necessità.

Soltanto in una prospettiva globale, non di ritorno agli stati sovrani e ai localismi, ma diretta verso una sempre maggiore integrazione istituzionale ed economica degli stati, si può pensare di realizzare questa rivoluzione. Di svuotare le paure che hanno alimentato sovranismi e populismi, di dare un obiettivo alle disorientate masse dei cittadini di tutto il mondo.

Pickett aggiunge a queste considerazioni, una riflessione che ritiene cruciale in questo ragionamento: a fare la prima mossa, l’innesco, lo scarto culturale ed auspicabilmente emulativo per riuscire in questa sfida, dovranno pensarci le classi dirigenti. Quelle, tanto per capirci, dei redditi alti, quelle meno toccate dalla perdita del potere di acquisto dei loro stipendi. Quelle che devono sentire la responsabilità, avendone i mezzi, per tentare la svolta. Rinunciando a privilegi, sacrificando le proprie risorse finanziarie, riducendo i loro ingenti guadagni accumulati negli ultimi anni, anche con merito, per carità, attraverso un modello di capitalismo che ormai, dobbiamo prenderne atto, fa acqua e deve essere rivisitato.

Se non ci sarà, in ogni paese, questa assunzione di responsabilità, il malessere di chi non ce la fa più dilagherà ovunque, alimentando circuiti anche non democratici pur di svuotare e cambiare il sistema, sperare di poter stare meglio. In modo più dignitoso. Senza differenze vergognose tra le varie classi sociali.

Bisogna farsi carico di disegnare una società diversa, fondata su una coesione sociale più equa e meno disuguale. Proporre una visione opposta a quella “triste e cupa” in cui i sovranisti e i populisti “vorrebbero chiuderci”, scrive Emanuele Felice: “Una che valorizzi gli ideali più belli in cui l’umanità ha creduto in tutta la sua storia e che in parte ha anche realizzato (perché ci ha creduto). Gli ideali della nostra Costituzione. E quelli inscritti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata dalle Nazioni Unite proprio sessant’anni fa in questi giorni”.

Già, ripartiamo da lì, dalle “aste” della convivenza civile, da dove sessant’anni fa, sulle rovine di un ‘900 catastrofico, si sognava di non replicarlo, puntando sulle Nazioni Unite, su consessi internazionali dove alle armi si dovevano sostituire le parole, la fratellanza, la solidarietà.

Può sembrare una retorica d’accatto ma, attenzione, viviamo mesi delicati e pericolosi non solo in Italia ma in Europa e nel mondo.

Andiamoci a leggere con attenzione e pazienza le carte dei promotori delle Nazioni Unite, quelli che sessant’anni fa sognavano un mondo migliore, pacificato e prospero.

Magari ci potremmo rendere conto meglio di cosa stiamo rischiando di perdere.

 

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