La conferenza sul clima di Katowice è stata un autentico fallimento: un fiasco soltanto addolcito dalle acrobazie lessicali delle varie diplomazie nei comunicati finali del vertice a cui hanno partecipato 196 nazioni. Se ci fermiamo alla forma, il summit sull’ambiente in Polonia si è chiuso a) con la decisione di andare avanti verso la riduzione dei rischi dei cambiamenti climatici; b) con la conferma dell’obiettivo già definito nel precedente vertice del 2015 a Parigi di contenere, prima della fine del secolo (sic!) l’aumento medio della temperatura globale entro 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali, con l’intenzione di ridurlo a 1,5 gradi; c) con i paesi più ricchi che hanno concordato di aumentare i finanziamenti per il clima a favore dei paesi più deboli che temono di non riuscire a fronteggiare le minacce ambientali dei prossimi anni; d) con tutti i partecipanti che, bontà loro, si sono impegnati a monitorare e comunicare pubblicamente i progressi per le azioni sul clima.

Nel comunicato finale si legge che il risultato raggiunto nella Cop24 (la sigla che ha caratterizzato il vertice di Katowice) testimonia un accordo equilibrato che ha fatto fare un passo in avanti nella sfida contro il riscaldamento globale del nostro pianeta.

Di contro, molti sono stati i commenti negativi. L’organismo competente del Parlamento Europeo e cioè la Commissione Ambiente considera il summit Cop24 “un quasi fallimento”. Il WWF ed altre associazioni ecologiste, pur dando atto che sono stati fatti alcuni progressi, sono preoccupate per la “mancanza di comprensione della nostra attuale crisi climatica da parte di alcuni paesi”.

Insomma, lo scontento regna sovrano: chi gioisce lo fa soltanto in ragione dello scampato pericolo di un risultato, se possibile, ancora peggiore. Molti sono rimasti delusi, chi temeva un fallimento ha tirato invece un sospiro di sollievo.

Il tema della tutela dell’ambiente non sfonda, salvo rare eccezioni non riscuote consenso né soprattutto viene considerato una priorità da affrontare e risolvere.

Pickett ha provato a chiedersi il “come mai” di questo sentiment mondiale omissivo o comunque distratto rispetto ad una tematica che tocca direttamente la sopravvivenza prospettica degli esseri umani sul nostro pianeta.

Come è possibile e quali sono le ragioni di questa disattenzione? Certamente il fondamentalismo degli ambientalisti talebani non ha giovato alla causa. Ha esasperato i toni creando una bolla di distrazione e sfiducia.

Inoltre il proliferare di una legislazione, sulla carta a tutela dell’ambiente, nella sostanza introduttrice di migliaia di lacci e lacciuoli che rendono estremamente burocratica, lunga e non efficiente ogni pratica amministrativa, non ha certo aiutato il fenomeno ad accattivarsi le simpatie ed il consenso degli imprenditori. Un caso per tutti che Pickett ha vissuto direttamente con un suo amico cliente: proprietario di una centrale idroelettrica, l’imprenditore italiano si è posto il tema relativo all’innalzamento del letto del fiume proprio in prossimità della diga soprastante la centralina elettrica e, soprattutto i paesi della valle su cui insiste l’impianto energetico. Ha provato ripetutamente ad evidenziare il problema (che tra l’altro tocca la sicurezza della vita degli abitanti di quella valle, primi destinatari di un eventuale, catastrofica esondazione delle acque della diga) alle autorità competenti in modo tale da poter svolgere dei lavori di ripristino della profondità originaria del letto del fiume. Si è trovato sempre di fronte a dei dinieghi o, peggio, a delle omissioni senza risposte. Un frustrante e pericolosissimo esempio di come una apparentemente virtuosa tutela normativa dei nostri territori possa diventare, drammaticamente, un assurdo alibi per non fare nulla a tutela della sicurezza degli stessi cittadini.

Detto ciò, esistono però delle concause senza apparente giustificazione: ci riferiamo in particolare alla miopia di molti paesi del capitalismo sviluppato che continuano a mettere il focus sull’efficienza e profittevolezza delle proprie produzioni industriali ritenendo marginale e, forse, al meglio complementare, il tema della tutela dell’ambiente e della lotta contro le emissioni.

Per altri paesi la questione non rappresenta una priorità. Ci sono altri temi da risolvere prima e subito: disoccupazione, disuguaglianza, crisi economica. Soltanto dopo emerge la tematica ambientale.

Dobbiamo anche considerare un altro aspetto non banale: i cosiddetti paesi emergenti, quelli che sono quotidianamente impegnati a sviluppare economicamente il proprio sistema industriale per ridurre il gap rispetto ai competitor del Villaggio Globale più ricchi, non sono disponibili ad autolimitare il loro sviluppo aderendo a proposte formulate dai paesi industrializzati. Questo è il loro ragionamento, in estrema sintesi: “è troppo comodo, dopo aver inquinato per decenni l’intero pianeta per sviluppare le proprie economie, imporre oggi a noi paesi in via di sviluppo di ridurre la nostra crescita in funzione di un valore comprensibile ma che è stato completamente dimenticato “da loro” per più di mezzo secolo. Quando gli faceva comodo e stavano crescendo con risultati economici a due cifre non si sono mai posti il problema della tutela dell’ambiente e della riduzione delle emissioni nocive: oggi che sono in stallo, chiedono a noi di fermare la nostra crescita e di occuparci di quel pianeta di cui loro non si sono mai interessati né hanno avuto cura”.

Posizione comprensibile che certo non aiuta in vertici come quello di Katowice a trovare un consenso unanime sui rimedi da adottare a livello globale.

Esiste infine un’altra corrente di pensiero, non tanto di minoranza: “non è vero quanto sostenuto dalle associazioni ambientali – sostengono gli assertori di questa tesi supportati dal Presidente Donald Trump, il negazionista tipo di questa tendenza –  le risorse ci sono e i mutamenti climatici non saranno così drammatici come vengono narrati da chi ha interesse o politico od economico in merito”.

Trump iniziò a diventare negazionista sul cambiamento climatico proprio durante la campagna elettorale per le elezioni del 2016, quando capì che il tema poteva essere decisivo nella sua lotta con Hillary Clinton in alcuni stati-chiave. Iniziò la sua campagna a favore delle energie fossili e catturò tutti i voti dei minatori e dei siderurgici delle regioni carbonifere in Pennsylvania e nell’Ohio, voti decisivi per la sua ascesa alla Casa Bianca. “Per aver visitato quei luoghi – ha scritto di recente Federico Rampini – per aver incontrato e intervistato quegli elettori so che non si fanno illusioni su quanto potrà durare l’uso del carbone. A loro basta che duri fino all’età pensionabile; che gli sia consentito cioè di pagare le ultime rate del mutuo, le ultime rette universitarie dei figli. Un presidente che offre qualche anno di proroga alla morte annunciata, è il presidente ideale per loro. Chi gli parla di Green Economy in termini astratti fingendo che l’Ohio sia la California, fingendo che un minatore cinquantacinquenne si possa riconvertire con la bacchetta magica per farne un ingegnere di software, appartiene ad una sinistra salottiera che a quei ceti ha smesso di parlare. Proprio come è successo a Hillary Clinton”.

Per concludere, esiste comunque un tema relativo alla tipologia di narrazione che viene utilizzata da tutti gli opinion maker in materia: sia di quelli a favore di una più rigorosa politica di tutela dell’ambiente sia di quelli che ne negano la priorità. Entrambe le correnti usano un tipo di narrazione che non convince, lascia dei dubbi, crea sospetti e spunti per pensare a dietrologie o a lobby che si stanno occupando di manipolare l’informazione e la conoscenza reale dei problemi da parte dei cittadini ignari.

Pickett ha cercato di offrire dunque ai lettori una panoramica delle varie posizioni di pensiero esistenti su questa controversa questione delle mutazioni climatiche e della tutela dell’ambiente.

Detto ciò, è opportuno andarci a leggere le conclusioni del rapporto “Tematich Investing: Transforming World – The next 5 years”, realizzato dalla banca americana BofA Merrill Linch.

Il rapporto inserisce il cambiamento climatico nella lista dei cinque temi-chiave da seguire con la massima attenzione per comprendere gli sviluppi economici del futuro. “I cinque anni più caldi della storia sono tutti nell’attuale decennio – si legge nel rapporto della BofA – la transizione energetica globale verso le rinnovabili è un tema-chiave, facilitato dai miglioramenti tecnici nelle energie rinnovabili e dai costi in discesa dell’eolico e del solare. Il cambiamento climatico sta anche guidando verso una spinta accelerata alla mobilità elettrica sia da parte dei governi sia delle industrie e il primo risultato sarà che il momento del “Peak Oil” è stato già anticipato al 2030 rispetto all’originario 2050. Quanto alle emissioni globali, il picco deve essere raggiunto nel 2020 per limitare a 1,5 gradi il riscaldamento globale”.

Il tema cruciale indagato dalla BofA è incentrato sul “time to market”. Il problema centrale infatti è la velocità di intervento che i grandi della terra sapranno adottare per arginare, con più o meno efficacia, tale mutamento climatico. Tale mutazione esiste da sempre soltanto che oggi va più veloce di sempre con possibili conseguenze economiche devastanti. “Va ad un ritmo tale – sottolinea il report della BofA – da sconvolgere non soltanto ecosistemi e ambiente ma le stesse economie di tutti i paesi del mondo”.

Il cosiddetto “climate change” avrà, secondo uno studio della Stanford University, un impatto economico micidiale: “Se continuiamo a produrre come stiamo facendo ora, se cioè il sistema dell’industria, dell’agricoltura e dei trasporti non subirà cambiamenti immediati, nel 2100 le temperature saliranno di 4 gradi che significa che il Pil mondiale diminuirà di oltre il 30% rispetto al 2010. Peggio della Grande Depressione del 1929. E con in più un dettaglio inquietante: significherebbe un collasso dal quale non sarà possibile fare marcia indietro”.

Il rapporto BofA Merrill Linch indica anche i driver rilevanti nel prossimo quinquennio per cercare di adottare rimedi efficaci contro questa catastrofe preannunciata.

Eccoli in sintesi:

  • Le fonti rinnovabili continuano il loro avvicinamento, se non il superamento, ai prezzi delle energie fossili in tutto il mondo;
  • i prezzi dei combustibili fossili sono in aumento in Europa;
  • gli sviluppi nella conservazione dell’energia spingono per un miglioramento delle performance delle batterie dei veicoli elettrici;
  • i governi stanno introducendo politiche più rigide verso il raggiungimento degli obiettivi fissati a Parigi nel 2015;
  • le culture aziendali stanno avvicinandosi al concetto di energia pulita.

In definitiva il rapporto si conclude con delle riflessioni positive, di speranza: la “clean revolution” è avviata e ne vanno colte le grandi opportunità etiche ed economiche.

Se non verranno adottate idonee politiche in tal senso (le conclusioni del summit di Katowice non fanno ben sperare!) l’innalzamento delle temperature causerà, come ha già causato, l’allargamento del divario tra i popoli: il miliardo di persone più ricco del pianeta emette il 60% di gas serra mentre i tre miliardi più poveri ne producono solo il 5%. L’ILO (International Labor Organization) stima che il cambiamento climatico minaccia 1,2 miliardi di posti di lavoro.

Se pensiamo che la Cina e gli USA sono responsabili di quasi la metà delle emissioni di carbonio al mondo, è chiaro che senza uno sforzo delle due superpotenze non si riuscirà a porre un freno al declino. L’atteggiamento negazionista o comunque agnostico di Trump non ci induce all’ottimismo. Da parte sua Xi Jimping, il primo ministro cinese, sta modificando il suo atteggiamento verso una politica globale a tutela del pianeta. Ha iniziato ad approvare i protocolli di Parigi e anche a Katowice, la sua delegazione, ha avuto un atteggiamento più flessibile, possibilista, meno ostativo: “Applaudire l’impegno di Pechino sugli accordi sul clima – ha scritto Rampini – è possibile solo se si ignora la “clausola cinese”: quell’economia che genera il massimo volume di CO2 del pianeta, continuerà ad aumentare le emissioni fino al 2030 anno in cui si impegna a stabilizzarle. Rifiutando comunque controlli esterni sul rispetto di questo impegno”.

Un quadro dunque non incoraggiante che trova poi in Francia, nella recente protesta dei “Gilet Gialli” un ulteriore elemento di preoccupata riflessione. I francesi che sono scesi in piazza contro il provvedimento deciso dal Presidente Macron sull’aumento del prezzo della benzina (una ecotassa mirata a creare risorse per la lotta contro gli inquinamenti ambientali: almeno questa è stata la motivazione dell’Eliseo) non sono né minatori né siderurgici. Quella protesta è nata però contro una tassa ecologica sui carburanti. È importante ricordarci che il loro slogan contro Macron è stato “Tu parli della fine del mondo, noi dobbiamo arrivare alla fine del mese”. In altre parole, non parlarci di ambiente riducendo ulteriormente il nostro potere di acquisto. Dobbiamo prima sopravvivere e poi ci occuperemo di altro, anche dell’ambiente. Questa angoscia, questa ansia di non farcela, di aver perso le sicurezze sul futuro sta portando grandi fette di cittadini in tutto il mondo a scendere in piazza, a protestare, a rivendicare una politica meno basata sulle disuguaglianze.

In Italia la Coldiretti ipotizza la necessità di investimenti compresi tra i 20 e i 30 miliardi di euro entro il 2030. Di questa priorità è cosciente il 54% degli italiani che ne tira delle conseguenze preoccupate per l’impatto sull’economia. La Fondazione Enel ha fatto uno studio dal quale si ricava che se si seguisse davvero una migrazione verso veicoli a basse emissioni, nel 2030 i consumatori risparmierebbero 917 euro all’anno con un aumento del Pil di circa 2,4 miliardi di euro e con quasi 20.000 posti di lavoro in più.

Il quesito centrale diventa dunque il seguente: è possibile trovare un giusto equilibrio tra le comprensibili rivendicazioni e proteste di chi non ce la fa più e una politica mirata ad investimenti nella tutela del nostro pianeta?

La risposta a questo angosciante interrogativo costituirà la sfida in tutti i prossimi appuntamenti elettorali nei paesi dove le elezioni si svolgono ancora. In Europa, negli Stati Uniti sicuramente. Il contenuto della risposta sarà il banco di prova della candidatura di nuove classi dirigenti che con visione, responsabilità, sensibilità ambientale e senso della solidarietà riusciranno a costruire una ricetta non velleitaria per una politica dell’ambiente sostenibile.

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