Sarà un giudice newyorkese a dire una parola non definitiva ma importantissima sul futuro dell’Intelligenza Artificiale ed in particolare sul modello di business di prodotti-servizi come ChatGPT di OpenAI e Microsoft Copilot.

Infatti, il 2024, si è aperto con una sfida giudiziale epocale per il mondo dell’innovazione digitale e dell’editoria tradizionale.

Il New York Times, come avrete letto in questi giorni, ha infatti citato in giudizio davanti a un tribunale di Manhattan le società OpenAI e Microsoft proprietarie dei programmi generativi ChatGPT e GPT-4.

Dopo aver tentato negoziazioni serrate per trovare un’intesa (un punto di equilibrio rispetto al corrispettivo che i proprietari di ChatGPT e GPT-4 dovrebbero pagare agli editori per l’utilizzo dei loro contenuti protetti dal copyright) i proprietari della testata giornalistica più famosa del mondo hanno dovuto prendere atto che era impossibile vedersi riconoscere “un equo compenso” per lo sfruttamento di tutti i loro contenuti editoriali da parte dei congegni delle piattaforme dell’Intelligenza Artificiale.

Di qui il radicamento di una causa civile davanti a un giudice newyorkese che si pronuncerà nel merito entro un lasso di tempo molto più breve rispetto a quanto siamo abituati noi italiani ad avere un responso dalla giustizia.

Qual è il contenuto della citazione del quotidiano newyorkese?

In sintesi si può dire che l’articolazione del ragionamento sviluppato dai legali della testata americana si basa su questo presupposto-constatazione: il giornalismo di qualità, “figlio” di grandi investimenti sia in termini di capitale economico sia di capitale umano, costituisce un asset intangibile, irrinunciabile per il funzionamento corretto delle democrazie liberali.

Ebbene, questo suo ruolo è destinato a scomparire o comunque a ridursi se i contenuti originali di cui rivendica legittimamente la proprietà vengono ingeriti e triturati dai “chat”. Oggetti che shakerano e ricompongono quegli stessi contenuti offrendoli al mercato, e cioè a noi, a prezzi molto più bassi.

Al di là di tutte le importanti e spinose questioni relative all’accuratezza e verità di questi prodotti di origine editoriale ma poi manipolati dalla tecnologia dei vari ChatGPT (il grande tema delle fake news), per i legali del New York Times esiste un tema di illecito utilizzo di materiali protetti dal diritto d’autore.

Dunque, nelle conclusioni della citazione depositata in tribunale, si chiede l’accertamento dell’illecito utilizzo di tali materiali e il conseguente pagamento degli ingenti danni causati alla testata negli ultimi anni ammontanti a diverse decine di milioni di dollari.

Non siamo ancora a conoscenza del contenuto tecnico-giuridico delle difese di OpenAI e di Microsoft

Finora la loro tesi, sulla quale hanno sempre basato la legittimità delle loro condotte, è stata quella di appellarsi alla dottrina americana del fair use, una dottrina che ricorda l’istituto della “citazione di opere altrui”, presente anche nella nostra legislazione sul diritto d’autore.

Il principio di tale norma è che si possono usare porzioni “limitate” di testo, incluse le parti eventualmente virgolettate, derivanti da commenti, critiche, cronache, reportage, saggi accademici di terzi.

Purché ovviamente si citi la fonte.

Questo tipo di scontro tra gli editori tradizioni e i proprietari dei nuovi strumenti tecnologici di diffusione delle notizie e dei contenuti digitali, è un film che abbiamo già visto, anche in Europa, quando in diversi tribunali si discusse l’uso legittimo o illegittimo da parte dei social network dei contenuti editoriali di proprietà degli editori dei media cartacei.

Si arrivò dopo anni di scontri ad una mediazione che venne anche poi incorporata in una nuova norma che stabiliva il diritto degli editori tradizionali a vedersi riconoscere un “equo compenso” da parte degli utilizzatori nel mondo del web.

Anche in questo caso alcuni protagonisti di questa industria hanno già raggiunto degli accordi economici: ad esempio Axel Springer ha annunciato, proprio nello scorso dicembre, di aver raggiunto un accordo con OpenAI per un compenso, rimasto per ora riservato, per l’utilizzo dei suoi contenuti sulle piattaforme di proprietà di OpenAI medesima.

Altri accordi sono stati stilati con Associated Press, Politico, Business Insider sempre per l’uso da parte di OpenAI di contenuti originali prodotti dagli editori.

Cosa può succedere ora?

Il giudice americano può riconoscere il diritto d’autore al New York Times, accertare quindi l’illecito utilizzo dei suoi contenuti protetti da parte di terzi e condannare quindi OpenAI e Microsoft ai danni subiti e provati dal proprietario della testata newyorkese.

In tal caso il giudice metterà un paletto importante proprio nella valutazione del modello di business del settore: rappresenterà un precedente, sempre impugnabile in appello, che in qualche modo potrà contaminare il valore delle società protagoniste di questo scontro. Da un lato facendo aumentare i ricavi per gli editori tradizionali e dall’altro lato aumentato i costi nei conti economici delle corporation digitali.

Oppure, sempre il giudice newyorkese, potrà emettere una sentenza di segno contrario, accogliendo la tesi del fair use, così come prospettata da OpenAI e da Microsoft.

In tal caso gli editori tradizionali dovranno porsi un serio problema di come riuscire a raggiungere o a confermare almeno il break-even dei propri conti economici in presenza, sullo stesso mercato di riferimento, di un concorrente tecnologico che produce, a prezzi molto inferiori per il consumatore, sostanzialmente identici contenuti.

L’aspetto suggestivo e paradossale della vicenda e che tutti i sistemi analoghi a ChatGPT hanno un modello di business che si basa sull’esistenza sul mercato degli editori tradizionali che attraverso corposi investimenti sia economici che professionali producono ogni giorno i contenuti giornalistici che sono poi prelevati e rimescolati dentro i programmi dei vari chat.

Quindi i cosiddetti nuovi editori tecnologici non possono immaginare un mercato in cui non esistano i produttori della “materia prima” contenutistica grazie alla quale possono approvvigionarsi di tutte le informazioni utili per costruire poi, dopo un attento shakeraggio, i prodotti dei vari chat.

Questa constatazione ci porta a concludere che è interesse di entrambe le parti che oggi si scontrano nei tribunali, di trovare un accordo che salvaguardi la sopravvivenza del sistema di tutte e due le modalità di diffusione delle notizie a noi consumatori.

L’aspetto cruciale rimane dunque quello della quantificazione e congruità del corrispettivo da riconoscersi al titolare dei contenuti protetti o proteggibili dal copyright.

Quindi è ragionevole pensare che le negoziazioni fino ad oggi fallite riprenderanno e dopo un po’ di schermaglie e di sentenze di giudici che potranno essere ragionevolmente diverse tra di loro, favorendo così il braccio di ferro in corso tra le parti, si concluderanno con un accordo economico basato su certi criteri condivisi per dare una congruità “sostenibile” per entrambe le parti.

Ci vorrà dunque un po’ di creatività tra tutte e due le parti del tavolo negoziale per andare ad individuare una mediazione virtuosa che salvi i profitti dei conti economici dei due modelli di business e permetta al mercato, e cioè a noi lettori, di poter contare sempre sulla scelta tra l’acquisto delle informazioni sull’attualità da parte degli editori tradizionali oppure dai nuovi chat partoriti dall’Intelligenza Artificiale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.