Non si dovrebbe mai “giocare” con le parole soprattutto con quelle che si portano “dietro e dentro” le tragedie della storia dell’umanità. In caso contrario, si creano i presupposti per fare dei danni enormi e non risarcibili, in termini culturali, storici e civici. Mi riferisco, ovviamente, al contenzioso istaurato dal Sudafrica (a cui si è poi aggiunta la Turchia) nei confronti dello stato di Israele e radicato davanti alla Corte di Giustizia Internazionale (Icj) dell’Aja, con l’accusa terrificante di aver “commesso e continuato a commettere un genocidio” nei confronti dei palestinesi.

Il termine genocidio fu coniato dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944 e fu il grimaldello giuridico principale sul quale furono costruite le fondamenta di diritto del processo di Norimberga. Il termine genocidio è comunemente associato alla Shoa, lo sterminio di sei milioni di ebrei, un progetto non per nulla denominato da Hitler “la soluzione finale”, nel senso che se fosse stata portata a termine, il popolo ebraico sarebbe dovuto scomparire. La gravità e delicatezza di questo contenzioso, a mio avviso naturalmente, risiede proprio nella volgarizzazione, in senso linguistico, di un vocabolo che ha un unico e preciso significato: “L’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, raziale o religioso”. Se lo si usa a sproposito, con prospettazioni forse suggestive ma giuridicamente scarse, si rischia di svuotarne il contenuto e cioè il potente e tremendo simbolo della peggior tragedia mai accaduta per mano di uomini ai danni di altri uomini.

La tesi sostenuta dal Sudafrica si basa su due tipi di prove: (i) l’entità delle devastazioni a Gaza e (ii) il linguaggio “disumanizzante” di certi ministri israeliani, inneggianti al massacro. Per il Sudafrica, Israele ha ripetutamente violato l’art. 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio: il trattato vincolante, varato nel 1948, per dare una definizione giuridica all’orrore dell’Olocausto, fu ratificato da entrambe i paesi protagonisti di questo contenzioso, con altre 150 nazioni. “Abbiamo l’obbligo – ha spiegato uno degli avvocati del team legale di Pretoria – di prevenire tali crimini proprio in quanto abbiamo sottoscritto quella Convenzione”. Come ha evidenziato in questi giorni Paolo Mieli, il Sudafrica ha sostanzialmente sostenuto che l’opera di distruzione contro i palestinesi “dura da 76 anni”, come ha spiegato il Direttore Generale del Dipartimento delle Relazioni Internazionali del Sudafrica, Zane Dangor. Questi ha dichiarato: “Il 7 ottobre (pur da condannare per la sua particolare atrocità) non può essere considerato separatamente da una occupazione bellicosa che dura da 76 anni”.

Israele, dunque, va considerata come una potenza occupante fin dal 1948 e si è macchiata del terribile crimine del genocidio nei confronti dei profughi palestinesi, intenzionalmente sterminati. Paolo Mieli, a mio avviso giustamente, si chiede in modo provocatorio “come mai, allora, nel corso dei successivi decenni, a fronte di una politica genocidaria, la popolazione palestinese che ha vissuto in quei territori si è quintuplicata?” Questa è comunque la tesi sostenuta dai sudafricani. Vediamo di contestualizzare questa accusa rispetto a cosa è accaduto circa 100 giorni fa, il 7 ottobre 2023.

Ci sembra di poter dire che da quel giorno abbiamo assistito ad una operazione militare rivolta a neutralizzare “i responsabili delle prove generali di sterminio andate in scena con successo e riscontro di pubblico festoso il 7 di ottobre – ha scritto Iuri Maria Prado su Linkiesta – è una operazione militare deprecabile per le troppe vittime civili che sta facendo? Va benissimo. È una operazione militare condannabile perché rischia di portare più danno che vantaggio, ed è inefficace come risultati e diretta verso il peggio? Benissimo. È una operazione militare discutibile perché genera laggiù e altrove un risentimento anche più pericoloso? Benissimo anche questo. Va tutto benissimo, perché tutte queste sono valutazioni legittime, per quanto esposte all’obiezione ovvia che quell’operazione militare – quella sì – non viene dal nulla ma dallo scempio di tre mesi fa, ed è appunto rivolta a neutralizzare quelli che l’hanno commesso e promettono di rifarlo”.

Ma il genocidio è un’altra cosa: “E’ una cosa – continua Prado – che non c’è ed è la cosa di cui si vaneggia per fare piazza pulita di quei fatti e innanzitutto del principale, vale a dire il diritto all’esistenza di Israele e il diritto alla vita in sicurezza degli israeliani”. Ancora più duro e rigoroso è stato il commento di Daniel Taub, ex ambasciatore israeliano a Londra, avvocato, autorevole advisor legale del governo di Tel Aviv: “Mi auguro – ha detto Taub – che questa iniziativa venga alla fine riconosciuta per quella che è: una mossa politica. Queste macchinazioni possono portare all’indebolimento del diritto internazionale e della capacità degli Stati di difendersi dal terrorismo”.

Sul processo in corso all’Aja, Taub ha aggiunto: “Stiamo assistendo in modo abbastanza scioccante, ad un tentativo di ridefinire, oltre la credibilità, il concetto del crimine di genocidio. Per prima cosa ricordiamo che Israele è parte della Convenzione sul genocidio del 1948, è stato uno dei primi Paesi a firmarla. Il concetto di genocidio è molto sentito in Israele, come Stato ebraico. E ricordiamoci che il 7 ottobre c’erano sopravvissuti all’Olocausto, che sono stati uccisi o rapiti e portati via. E credo che questo sia ciò che dà una particolare forza emotiva alla partecipazione di Israele”.

Ovviamente attendiamo tutti il giudizio della Corte di Giustizia internazionale. Ricordiamoci che questa Corte, organo delle Nazioni Unite, dirime soltanto questioni di diritto internazionale e cioè vertenze tra Stati e non può pronunciarsi sulla responsabilità penale di un membro. Esistono precedenti nella storia della Corte (che è costituita da giudici togati nominati anche dagli Stati in contenzioso): nel novembre del 2019 il Gambia ha depositato un ricorso contro il Myanmar proprio sul crimine di genocidio perpetrato nei confronti della popolazione Rohingya. Prima ancora, durante la guerra dei Balcani, Bosnia ed Erzegovina citarono in giudizio Serbia e Montenegro proprio per la violazione della convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio, ottenendo una sentenza di condanna.

Concludendo, ribadisco però che ogni volta che si fa uso, soprattutto in procedimenti giudiziari, di termini che hanno un significato convenzionale definito dalla norma, un significato molto preciso e, trattandosi di crimini, molto delicato, bisognerebbe adottare principi di attenzione e prudenza. Un uso sbagliato o comunque ridondante o propagandistico, può provocare danni educativi e culturali immensi soprattutto nelle nuove generazioni che non hanno dei filtri di lettura e interpretazione adeguati alla delicatezza di questo genere di problematiche. Come dice l’ambasciatore Taub, il richiamo scorretto a questo genere di crimini può rappresentare una picconata al diritto internazionale indebolendo i principi giuridici relativi ad una convivenza pacifica fra gli Stati. Sdoganare certi termini come il genocidio per finalità politiche o mediatiche, è molto pericoloso.

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