Abbiamo, nell’ultimo contributo su Pickett, affrontato ancora una volta il delicatissimo tema dell’aumento sconsiderato delle diseguaglianze tra i ricchi – sempre meno numerosi ma più ricchi – e i poveri – sempre più numerosi e sempre più poveri.

Se ne è occupato, tra i tanti, anche lo scrittore francese Pierre Rosanvallon autore di un saggio che sarà pubblicato sul prossimo numero di Vita e Pensiero, la rivista dell’Univesità Cattolica del Sacro Cuore.

Pickett ritiene utile ricapitolare alcuni passaggi importanti dello scritto del professore francese, direttore della Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigi.

Il concetto di solidarietà, secondo Rosanvallon, ha avuto un ruolo importante per non dire decisivo nella recente storia dell’umanità.

Non solo perché “riparatore” delle diseguaglianze esistenti ma perché “conferisce qualità al legame sociale”. Dalla rivoluzione francese in avanti “l’occuparsi degli altri”, dei “meno fortunati” ha costituito una costante delle comunità più evolute, rendendo concrete delle politiche economiche redistributive sempre più marcate. Si pensi all’introduzione di aliquote fiscali progressive sul reddito che dal 7% medio alla vigilia della Prima Guerra Mondiale sono aumentate via via nei trent’anni successivi al 60-70% e addirittura al 92% in USA.

Oggi il trend si è affievolito e il tema di una iniqua redistribuzione della ricchezza prodotta è tornato prepotentemente  alla ribalta del mondo, ponendosi come la questione prioritaria da affrontare per evitare guai maggiori. Secondo il pensatore francese ci stiamo purtroppo convincendo che soltanto in una società omogenea si possa produrre solidarietà. “L’eterogeneità della società fa sì che ormai in essa prosperi la diffidenza. Si assiste alla moltiplicazione dei ripiegamenti, ai separatismi locali e nazionali. Come se il regresso delle istituzioni di solidarietà e il regresso del ciclo redistributivo previdenziale fossero legati, alla fin fine, alla percezione di una certa omogeneità nelle società industriali”.

Un esempio lampante di tale tesi lo si trova nei paesi scandinavi, un tempo non lontano benchmark mondiale di una redistribuzione delle ricchezze molto solidale: “Questi Paesi erano un tempo i campioni dello Stato del benessere e della redistribuzione, ma anche i campioni dell’omogeneità e del conformismo culturale grazie a una cultura religiosa molto compatta per ogni Paese e grazie all’origine etnica dei loro abitanti. Il trauma dell’immigrazione ha introdotto forme di diversità che hanno lacerato in modo radicale il sentimento di solidarietà, perché esso era ancorato a una visione dell’omogeneità”. Rosanvallon sottolinea dunque come ci sia un nesso di causalità tra la riduzione della solidarietà e l’aumento della disomogeneità delle nostre comunità a causa dei flussi migratori in atto.

Questo è il primo punto focale del suo saggio. Un secondo punto rilevante è legato alla trasformazione del modello di produzione. “Il modo di produzione industriale classico produceva effetti di aggregazione. Il lavoro alla catena di montaggio prendeva individui diversi e li rendeva simili sulla linea di produzione: utilizzava ciò che vi era di comune tra loro, cioè solo la forza lavoro. Tutto il modo di produzione industriale produceva così una forma di omogeneità e di aggregazione sociale. Al contrario, il modo di produzione attuale non mobilita nell’individuo ciò che ha in comune con gli altri, ma ciò che vi è di particolare in lui. Il capitalismo moderno ha bisogno di disponibilità, d’inventiva individuale, della possibilità di trovare una soluzione immediata a un piccolo problema di fabbricazione, e non semplicemente della capacità di seguire, in modo ripetitivo e senza avere alcuna iniziativa, un processo di produzione”.

La crisi del modello solidale è poi causata da un terzo elemento: “la crisi morale della solidarietà”. “Non si può parlare di solidarietà oggi se non si guarda in faccia il fatto fondamentale di una nuova forma di consenso alla diseguaglianza nelle nostre società. Mentre per lungo tempo, in passato, sulla scia di Tocqueville, si è imposta l’idea dell’eguaglianza come un cammino silenzioso ma continuo nella storia, oggi constatiamo una grande divergenza su tale questione. In effetti, coesistono un sentimento rafforzato della diseguaglianza in certi campi e un sentimento attenuato dell’eguaglianza in altri. L’eguaglianza redistributiva arretra, mentre l’eguaglianza di status, di riconoscimento o di “rispetto” – per usare parole oggi molto diffuse – progredisce. Una mancanza di rispetto (o di un pari rispetto) appare ormai nelle nostre società assolutamente insopportabile, mentre certe diseguaglianze di reddito sono al contrario molto più facilmente sopportate. Di fronte a ciò, si assiste innanzitutto allo sviluppo di perversioni di solidarietà”.

Negli Stati Uniti si assiste, sempre secondo il pensatore francese, ad una nuova interpretazione della “compassione di sostituzione”: “Di fronte a un Welfare State assistenziale – scrive Rosanvallon – che costava troppo caro, bisognava de-istituzionalizzare la solidarietà e tornare pian piano alla carità individuale. Procedendo in senso contrario a meccanismi molto gravosi, bisognava favorire il senso individuale della prossimità”.

Rosanvallon mette in guardia tutti sul diffondersi di tale “privatizzazione” della solidarietà: “Ma la visione del conservatorismo compassionevole è veramente una vera e propria perversione dell’idea dell’attenzione degli altri, poiché preconizza la distruzione metodica delle istituzioni della solidarietà”.

Un altro fenomeno distruttivo della solidarietà viene denominato da Rosanvallon “la solidarietà da esclusione”: “L’Europa, in particolare, ha conosciuto tali forme di solidarietà alla fine del XIX secolo. Mentre la prima globalizzazione produceva tutti i suoi effetti a partire dagli anni 1885-1886, dovunque in Europa si sono sviluppate forme di xenofobia e di nazionalismo. Di fronte alla crescita delle disuguaglianze in quell’epoca, la risposta non è stata la solidarietà, ma la ricerca di capri espiatori. Per la prima volta nella storia, si è sviluppato quel che abbiamo chiamato il nazionalismo. La nazione, che era una parola simbolo della costruzione di una prossimità, di una solidarietà, di una eguaglianza interna, da allora si è definita unicamente per ciò che la opponeva ad altri. Una nazione definita dal rifiuto e non più dalla solidarietà: ecco, in pratica, l’invenzione del nazionalismo.

Come reagire a tale scenario inquietante di rischio di abbandono di un concetto fondamentale dello “stare insieme” delle nostre comunità?

Rosanvallon indica alcune “medicine, una serie di necessarie azioni rettificative del trend in essere “In primo luogo, nel capitalismo di tipo nuovo che ormai viviamo, occorre ridare un senso accresciuto alla nozione di attenzione alla particolarità. Non si può gestire la solidarietà solo con regole generali, perché gli incidenti della vita o le situazioni di difficoltà sono sempre più particolari. Nell’età del capitalismo della particolarità, bisogna ridare senso all’attenzione alle singolarità”.

In secondo luogo, bisogna conseguentemente immaginare nuove modalità di rapporto tra le istituzioni pubbliche e il mondo delle associazioni del terzo settore: “Non si tratta più semplicemente di inviare assegni di sussidi di disoccupazione e di verificare situazioni giuridiche, ma anche di cercare di far seguire da consiglieri individuali le persone in situazioni di mancanza d’impiego…”.

Il terzo tipo di intervento riguarda le politiche fiscali: “Un’altra riflessione da riprendere è quella sui tassi d’imposta e sulla legittimità di una società della redistribuzione. Se infatti esistono ancora forme di redistribuzione, queste ultime sono, in modo crescente, considerate come illegittime, e non semplicemente dai possidenti più agiati. La questione è fondamentale, ma nello stesso tempo non bisogna dimenticare che la rivoluzione della redistribuzione all’inizio del XX secolo è stata resa possibile solo da rivoluzioni di ordine sociologico e politico. Non possiamo, dunque, ricostruire oggi delle istituzioni solidali senza una società che non sia innanzitutto segnata dagli imperativi della cittadinanza. Per dirlo in altri termini, non possiamo formare una società più solidale se non ricostruiamo un tessuto democratico”.

Rosanvallon conclude il suo saggio con un grido di allarme forte e chiaro per le nostre traballanti democrazie: “Il segno della solidarietà è la qualità della società. Ridare un senso forte alla solidarietà, restituendole a un tempo legittimità e una base economica accresciuta, passa per l’imperativo di ricostruire una cittadinanza e un tessuto democratico”.

 

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