Pickett ci ha pensato su qualche giorno. La fotografia era perfetta: lucida, spietata, analitica e completa.

La tragedia genovese aveva innescato nell’estensore la giusta rabbia mista a delusione dello stato del nostro Paese.

L’interrogativo di fondo era drammaticamente suggestivo.

Come siamo diventati Noi cittadini di uno dei Paesi più belli e invidiati del mondo?

C’era però qualcosa che mi lasciava perplesso: la scrittura era magistrale, avvolgente, di facile lettura. Il lessico appropriato. L’impostazione sistematizzata… e allora cosa c’era che mi lasciava dubbioso? Ho girato il pezzo a qualche amico: mi sono confrontato su contenuto e finalità.

Poi, finalmente, rileggendo per l’ennesima volta il pezzo di Francesco Francio Mazza, pubblicato nei giorni scorsi su Linkiesta.it, ieri ho avuto l’illuminazione che ora vi socializzo.

Proprio perché vero, ben scritto e ironicamente suggestivo non vorrei che ci portasse ad esasperare un nostro ormai consolidato difetto non più virtuoso: il compiacerci del “come siamo diventati”.

L’indulgere nell’autocritica sperando che possa diventare catartica.

Il limitarci ad una autoironia, anche spietata, che non si porta dietro nessuna ipotesi di cambiamento. Di “remontada” per usare un termine calcistico. Che si limita a sorridere di una tragica involuzione di un Paese pieno di risorse che negli ultimi 40-50 anni si è ripiegato su se stesso dando la stura a tutti i peggiori difetti della propria genia. Che dopo l’energia, la passione, la progettualità del dopo guerra, una volta raggiunto il benessere, ha iniziato, follemente a nostro avviso, a provare a conservarlo.

Resistendo ad ogni forma di innovazione, combattendo contro ogni mutamento anche virtuoso, arroccandosi nei privilegi acquisiti e non guardando più in avanti. Anzi, vivendo con lo sguardo sul retrovisore come se il torcicollo sul passato potesse essere un farmaco al disastri del presente.

Un Paese che ha perso visione sul futuro, ha aumentato il debito verso terzi che significa che ha vissuto al di sopra dei propri mezzi, rinunciando, in modo miope e distruttivo, a mettere le basi per un Paese attrattivo per i giovani, e cioè per i propri figli e nipoti.

In più, consci di questo scenario, ci siamo limitati a fare i cronisti, a volte sarcastici a volte pure spiritosi, di questo disastro. Senza mai modificarlo minimamente. Anzi, accelerando la deriva autodistruttiva.

Dalla spietata analisi di Mazza dunque rinascano, questo è l’auspicio di Pickett e questa è la ragione della sua pubblicazione completa, le voglie di riscatto, i desideri di dire “Basta” ad un declino etico, culturale e imprenditoriale apparentemente irreversibile. Si riattivino le speranze che finalmente, dopo un periodo di immobilismo deteriore, tutto il Paese si renda consapevole del rischio che corre, a tutti i livelli sociali, e inverta la rotta. Ciascuno con il suo piccolo ma importante contributo personale. Con il suo importante esempio comportamentale.

Pensate, concludendo questo incipit lungo ma credo necessario prima di lasciarvi a Mazza che, ad esempio, 6 mesi di “astinenza” di TUTTI NOI da atti di corruzione privata o pubblica, ripeto 6 mesi, solo 180 giorni, ci permetterebbero di ritrovarci in mano e nel portafoglio della nostra comunità le risorse economiche necessarie (si calcola non meno di 100 miliardi di euro) per avviare un nuovo Risorgimento nazionale serio, costruttivo, innovativo e moderno. Si, ci ritroveremmo anche i fondi per una vera, seria e non contaminata manutenzione straordinaria delle nostre infrastrutture, una delle spade di Damocle che abbiamo sulla testa.

E’ una provocazione? Si, certo… però ci da l’idea di dove siamo finiti e di quanto poco ci vorrebbe per ripartire.

Sembra, in altre parole, una battuta ma è la triste verità. Nello stesso tempo una straordinaria occasione.

Buona lettura e buoni pensieri.

L’immagine del ponte degli anni ’60 che crolla è l’immagine perfetta di un Paese che pensava di vivere per sempre sulle spalle degli anni ’60 e improvvisamente ha visto sbriciolarsi la terra da sotto i piedi.
Per oltre mezzo secolo, abbiamo creduto si potesse vivere sospesi, paralizzati in un eterno presente e, rifiutandoci di andare avanti, su quel ponte di calcestruzzo abbiamo costruito un microcosmo indifferente ad ogni agente esterno, come microbi occupati per decenni a contendersi il dominio dell’atomo.
Per tutti gli altri, il viaggio è proseguito: sono stati scoperti altri paesaggi, sono stati costruiti altri ponti. Per noi no. Noi abbiamo fatto dell’immobilismo la nostra ragione di vita, issandolo ad unica ideologia in nome della quale abbiamo messo alla forca chiunque si sforzasse di guardare avanti, convinti che il futuro fosse un mostro da evitare, e il resto del mondo un luogo che non valesse la pena vedere, se non in villaggi turistici dove servono la pasta al pomodoro e un espresso fatto come si deve.

Siamo stati felici di consegnarci all’abbraccio di chi ci ha assecondato, abbiamo voluto credere solo ed esclusivamente ai pifferai che ci offrivano come unica garanzia la promessa che non sarebbe cambiato niente. Si scrive “debito pubblico”, si legge distruzione organizzata e sistematica del futuro per rattoppare l’esistente, un rammendo dopo l’altro, perché provare a cambiarlo davvero avrebbe voluto dire rischiare di perdere i nostri privilegi da microbi, via via più piccoli fino a diventare inesistenti, di cui godevamo sul microcosmo-ponte.
Non è assolutamente vero che ce ne siamo fottuti, che non sapevamo, che non ce ne eravamo accorti, che eravamo in buona fede: sapevamo e vedevamo tutto benissimo, e vigilando attentamente affinché le cose non cambiassero mai, se non abbiamo fatto nulla è perché su quel ponte siamo stati da Dio. A coprirci a vicenda, a tollerare il peccato dell’altro con il tacito accordo che l’altro avrebbe tollerato il nostro a sua volta, in un suk di favori e contro-favori che aveva come unico obiettivo quello di eliminare fisicamente chiunque avesse il talento o l’ambizione necessaria per provare a cambiare le cose, spingendoci a proseguire.

Si scrive “debito pubblico”, si legge distruzione organizzata e sistematica del futuro per rattoppare l’esistente, un rammendo dopo l’altro, perché provare a cambiarlo davvero avrebbe voluto dire rischiare di perdere i nostri privilegi da microbi, via via più piccoli fino a diventare inesistenti, di cui godevamo sul microcosmo-ponte
Non è in causa la classe politica, né la classe dirigente, né quella imprenditoriale. In causa siamo noi e il nostro eterno Ferragosto, da cui nulla ci ha scosso e nulla ci scuote, nemmeno il disastro ieri, come si vede negli stabilimenti balneari di tutta la penisola in queste ore: il vero problema è l’allerta meteo che potrebbe rovinare l’anguria già in ghiaccio, non certo le decine di morti di ieri.
Vittime non di un disastro che altrove sarebbe imprevisto come il crollo di un ponte, ma proprio come quelle del terremoto dell’Aquila o di Amatrice, delle innumerevoli alluvioni o della slavina di Rigopiano, vittime di un fenomeno prevedibilissimo: l’Italia.
I sintomi sono diversi – una volta le case abusive costruite con materiali scadenti, un altro i soccorsi mandati in ritardo, un altro ancora un allarme lanciato tre anni fa e completamente inascoltato – ma la malattia è sempre la stessa: il rifiuto costante di assumersi una responsabilità nei confronti di chi verrà dopo. Tanto ci sarà sempre una vignetta satirica o un barcone su cui scaricare la rabbia per essere sicuri che anche stavolta non accadrà nulla, e un cagnolino eroe o un pikkolo angelo buono a lavarci la coscienza, e a farci sentire di nuovo la brava gente che crediamo di essere.

Potevamo provare a rimetterci in marcia negli anni ’80, quando le cose andavano bene; oppure potevamo farlo in questi ultimi anni, quando le cose andavano malissimo, sfruttando quell’istinto di conservazione che spinge solitamente a gettare il cuore oltre l’ostacolo, ad accettare i sacrifici più duri per cercare di raddrizzare la propria sorte. E invece abbiamo scelto di non fare niente, di restare in vacanza, fermi a cavalcioni sulle spalle del nostro passato. E anzi, per meglio difendere le ultime pezze al culo siamo riusciti ad inventarci dei pifferai nuovi di zecca, talmente surreali nei modi prima ancora che nei contenuti, da far sembrare quelli di ieri degli statisti. E come capolavoro finale, siamo perfino riusciti a rispolverare dal baule dei cimeli di famiglia sentimenti e nostalgie che se fino a ieri facevano ridere oggi fanno piangere di tristezza.
Per questo, al culmine di un’estate “italianaaa” in cui non si è fatto altro che parlare di chi è disposto a morire per venire da noi, dal nostro cumulo di macerie fumanti l’unica cosa rimasta da fare sarebbe avere, perlomeno, il coraggio di alzare le mani bene in alto e mettersi a gridare, invitandoli a fermarsi adesso che sono ancora in tempo.
Non venite in Italia. Lasciateci morire in pace.

(Francesco Francio Mazza da Linkiesta.it)

Grazie

Comments (2)
  1. Rinaldo Canalis (reply)

    20 Agosto 2018 at 10:38

    Caro Riccardo,
    non ho niente da dire sul contenuto dello scritto di Pickett che mi hai mandato.
    Ma vorrei andare oltre. Non alzare la le mani per arrendermi. Si puo’ andare oltre, ancora. Forse sempre.
    Un po’ pero’ vorrei prendermela con un settore del nostro vivere. L’informazione.
    Perché diamo così tanto spazio alla pancia? Perchè non andiamo a vedere gli spazio di bene, di visione del futuro che ci sono, anche se pochi? Perché non li esaltiamo?
    Mi torna solo in mente “fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”.
    Ma di rumori, si soffre ormai da troppo tempo. E’ ora di finirla di farci del male e lasciare spazi a coloro che godono masochisticamente a farsi del male.
    L’informazione non è aprioristicamente di “regime” se vede il bello ed il buono.
    In quest’estate ho incontrato 800 ragazzi a Cumiana non per parlargli. Non per convincerli. Ma per zappare , lavorare insieme, sotto un sole di tutto rispetto per alcune ore al giorno. Il tutto passando accanto a dispositivi di sperimentazione della Re.Te. – restituzione tecnologica –  per vivere meglio il futuro e per tutti, in tutto il mondo.
    Questi giovani sono andati via da Cumiana, da quello che chiamiamo il VillaggioGlobale del Sermig, contenti.
    Di tutto questo nessuna notizia. Un giornale locale diocesano ha pubblicato … una foto …
    Ma quest’attività è stata l’unica nel suo genere in tutta la provincia …!

  2. Mauro Ferraris (reply)

    20 Agosto 2018 at 11:03

    Caro Pickett
    Leggo con attenzione sempre i tuoi pensieri sul blog e non posso spesso che condividere.
    La rinascita è teoricamente facile se si recuperassero la cultura e i valori di un tempo che internet, l’emancipazione, la parità portata agli eccessi il concetto di famiglia e la rincorsa spasmodica al denaro e al lusso e la progressiva eliminazione delle peculiarità di ogni razza umana in favore della globalizzazione ci stanno togliendo……..stiamo uccidendo la natura e quindi noi stessi in favore del nulla.

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