Con ancora negli occhi le immagini, le testimonianze, i diversi commenti sulla strage dei braccianti stranieri in Puglia e con “dentro“ frustrazione, rammarico, quasi rabbia per la difficoltà di individuare delle soluzioni possibili a questa tragedia del nuovo schiavismo del Terzo Millennio, mi si è improvvisamente accesa una lampadina.

Una speranza di non irreversibilità di un fenomeno, per molti non modificabile. “Così va il mondo“ sospirano scettici, pessimisti e cinici.

E invece pare proprio di no!

Esiste infatti, non lontano da casa nostra, un nuovo modello di business che interessa la filiera agroalimentare. Una nuova e innovativa modalità di lavoro, di produzione, di trasformazione dei prodotti agricoli che non ci costringerebbe, apparentemente in modo ineluttabile, a dover sfruttare i deboli del “momento“. I disgraziati disponibili a qualunque sacrificio, in termini sia di dignità sia di sfruttamento economico, pur di avere un lavoro. Un tozzo di pane per campare.
L’equazione perversa che ci ha raccontato Carlo Petrini non è ineluttabile. L’ effetto domino negativo che parte dal fondo, dalla rigidità speculativa della grande distribuzione organizzata e risale la filiera, strozzando gli altri attori fino alla para-schiavitù del caporalato dei braccianti, è, in realtà, modificabile.

Basta volerlo.

Sia come consumatori, accettando di pagare un prezzo più equo per i prodotti del food (essendo, quando lo vogliamo, capaci di pagare prezzi assurdi pur di acquistare subito l’ultimo gadget tecnologico inventato dalle multinazionali di Silicon Valley!) sia come produttori, non appiattendoci su modalità di organizzazione del lavoro obsolete, non efficienti e soprattutto basate sullo sfruttamento della manodopera a basso costo.
Dove mi si è accesa la lampadina?

Parlando, proprio nei giorni scorsi, con un amico olandese delle disgrazie italiane, del disastro del nostro sistema produttivo agro-industriale. “Vieni a trovarmi – mi disse al termine di una concitata, appassionata ma anche rammaricata telefonata – ti faccio visitare la nostra Food Valley, il più grande laboratorio europeo di innovazione della produzione agricola, esistente nel più piccolo paese dell’Unione europea, Lussemburgo a parte: l’Olanda appunto. Ti tirerà su il morale e magari ti verranno delle idee sul da farsi nel tuo paese.”

Pickett non ci ha messo più di quarantott’ore a fare le valige e ad atterrare ad Amsterdam. Una trasferta lampo, di un giorno: dal mattino alla sera. Un autentico bombardamento salutare di innovazione, speranza e progettualità prospettica. Il tutto, assolutamente replicabile ovunque, anche nel nostro paese. Certo volendolo e non contaminandolo immediatamente con alibi del tipo: esistono le mafie locali; le tradizioni in campagna difficilmente sono modificabili; la nostra cultura è diversa da quella olandese; la mentalità dei nostri contadini è difficilmente modificabile.

State a sentire cosa mi è successo in Olanda e segnatevi i vari punti che emergono da questa veloce ma istruttiva trasferta nei Paesi Bassi.

A metà degli anni 90, il governo olandese decide di darsi una priorità strategica: puntare su uno sviluppo agricolo sostenibile basato su ricerca e innovazione con uno slogan suggestivo “il doppio del cibo con metà delle risorse”. (Prima lezione: bisogna fare innanzitutto una scelta visionaria e concentrare, poi, su tale obiettivo, tutte le risorse, tante o poche che siano, senza disperderle in uno stillicidio di interventi effettuati soltanto a fini clientelari.)
La macchina si muove attraverso una grande alleanza con il mondo delle università e il mondo delle associazioni dei produttori. (Seconda lezione: dopo aver scelto l’obiettivo, bisogna fare sistema con tutti gli stakeholder interessati.)
Nasce così la Food Valley, un vero e proprio distretto composto da aziende agricole dove si fa quotidianamente sperimentazione con il supporto continuo e strutturato della Wageningen University & Research, eccellenza mondiale del settore. (Terza lezione: l’ esistenza di un “collare “corto tra la ricerca scientifica e universitaria e il mondo della produzione.)

Di fianco alle aziende nascono, incubate nell’ambito universitario decine di nuove Start Up, ormai lanciate e gestite da giovani studenti che arrivano da tutto il mondo attirati da gli straordinari successi e opportunità del progetto. (Quarta lezione: per non “perdere“ i nostri talenti e attirare quelli stranieri, dobbiamo costruire delle“Serre creative“ di innovazione, sostenibile e visionaria.)
L’investimento realizzato dagli olandesi è sicuramente capital intensive. Meno addetti occupati più meccanizzazione. Più produttività si porta con se maggiore marginalità. La reddittività dell’investimento crea i presupposti per ottenere sul mercato finanziamenti praticamente illimitati. E qui sta la sfida: il cosiddetto Social Impact. (Quinta lezione: la profittevole non si deve più accumulare nelle “tasche“ di pochi capitalisti ma si ridistribuisce equamente sulla filiera , creando nuove opportunità di lavoro.)

Il National Geographic ha pubblicato recentemente i risultati di una ricerca sul modello olandese: i dati sono assolutamente straordinari!

Ascoltate: un paese grande come la Lombardia e l’Emilia – Romagna, con un clima molto più freddo e piovoso, è diventato in pochi anni il secondo esportatore mondiale (per valore del prodotto, si badi bene, non per quantità di prodotto) di prodotti agricoli. (Il primo è l’America). A vent’anni dall’avvio del progetto, il 50% del territorio olandese è ormai destinato a produzioni agricole e/o a orticultura, sovente realizzate in serre dotate di sistemi informatici avveniristici e tutti domo. L’Olanda è il paese “numero uno“ tra gli esportatori mondiali (sempre per valore del prodotto) di pomodori (sì proprio quelli drammaticamente protagonisti involontari in Puglia) di cipolle e patate. “Numero due” per i vegetali in genere. I dati sulla produttività sono sorprendenti: la produzione dei pomodori tocca 144 tonnellate per 260 h (il miglio quadrato), una decina di volte di più dell’Italia. Sei volte di più di Spagna e Stati Uniti. In termini di capacità produttiva l’Olanda è la prima anche per cetrioli e per peperoncini. Seconda per le pere; quinta per carote, patate e cipolle. Ma vi è di più: la creazione di valore innovativo scaturente dalla vicinanza con i centri universitari e con le imprese agricole, origina i seguenti risultati: gli olandesi, grazie anche alle coltivazioni idroponiche, usano 25 volte meno l’acqua rispetto al resto del mondo (14 volte meno degli Stati Uniti). La produzione degli ultimi 15 anni è aumentata del 30%: contestualmente la ricerca e l’innovazione tecnologica, con un occhio sempre attento all’impatto ambientale, hanno fatto diminuire l’uso di energia (6%) di pesticidi (9%), di fertilizzanti (29%). Il processo di ottimizzazione è tuttora in corso. (Sesta lezione: l’agricoltura è un business basta saperlo trattare con rispetto culturale ed educativo, – i prodotti buoni e sani costano e bisogna saperli pagare- produce utili , – la cui redistribuzione va ripensata proprio come modello- attira i giovani talentuosi perché vive e si implementa su ricerca e continua innovazione – il vero investimento strategico di ogni paese: dare una speranza ai propri giovani e attirare il cervelli migliori dall’estero.)

L’onda lunga, virtuosa dell’esperimento nato, lo ripetiamo soltanto vent’anni or sono, ha prodotto questi dati. Oggi la Food Valley olandese è un benchmark mondiale, studiato ovunque.

La visita, seppur breve, è stata un autentico “strizzacervello” . Viviamo in un paese che avrebbe un eco-sistema migliore, con una dimensione territoriale e una storia nel mondo agricolo di assoluto rilievo. Perché non ci mettiamo al lavoro e, stimolati anche da menti visionarie come Carlo Petrini, non impariamo, con modestia e curiosità, il modello olandese, replicandolo con intelligenza in Italia? Partendo magari proprio da una delle regioni del nostro martoriato meridione.

Il settore pubblico deve innescare lo start-up e organizzare, con risorse pubbliche, una cabina di regia generale: il privato si responsabilizza alla gestione operativa e finanziaria. A tutti gli stakeholder del territorio spetterebbe il compito di immaginare e costruire anche un impatto sociale percepibile in termini di nuovo e diverso modello di redistribuzione del reddito prodotto; di attenzione reale all’ambiente; di creazione di opportunità lavorative nuove, moderne e competitive; di valorizzazione dei centri di formazione universitaria del settore.

Insomma, Pickett è tornato da Amsterdam meno pessimista sulla possibilità che il caporalato debba necessariamente vincere questa partita. Volontà politica, visione strategica, ricerca e innovazione, attenzione alle ricadute sociali, sono i “giocatori“ di questo match che potrebbero permetterci davvero una clamorosa “Remontada“, etica e sociale. Una vittoria nella guerra contro lo sfruttamento dei nostri simili meno fortunati.

Dipende da noi, solo da noi!

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