La notizia, almeno per Pickett, è arrivata come un cazzotto. Un montante al mento! Di quelli che ti  buttano a gambe all’aria. Il tipico KO. L’Italia può vantare il tragico primato di poter contare sul maggior numero di Neet di tutta Europa. I Neet, tanto per capirci, sono i “youth Not Employment, Education or Training”, i giovani senza lavoro, che hanno abbandonato la scuola e che non partecipano a nessun corso di formazione. Quelli fuori dal giro insomma. Quelli che “stanno alla finestra” o, peggio, lavorano per la malavita. Sono oltre due milioni e mezzo, un esercito senza comandante, senza istruzioni, senza speranza, senza dignità. Non so quanto ci sia di consapevolezza di questa tragedia che il nostro disastrato Paese sta vivendo sulla sua pelle giorno dopo giorno, anno dopo anno, con le statistiche che, come vedremo peggiorano di volta in volta.
Il rapporto che l’Ocse di Parigi pubblica ogni due anni presenta uno scenario devastante. Dopo la crisi economica scoppiata nel 2007 e certamente non ancora conclusa, l’Italia registra il più alto tasso di abbandono scolastico: il 15% lascia la scuola dopo la terza media (la media europea è all’11%) e il tasso di occupazione dei laureati nella fascia 25-34 anni è pari al 62%, 20 punti in meno rispetto alla media dei paesi sviluppati.
Come giustamente evidenziato dalla rivista on-line Competere, diretta da Pietro Paganini, questa drammatica situazione e cioè questa incapacità di integrare i Neet nel mondo del lavoro costa all’Italia 35 miliardi di euro di  mancata produttività, la più elevata quota tra tutti i paesi  membri dell’Unione Europea. L’abbandono di ogni speranza di poter inserirsi nel circuito o formativo o lavorativo, per periodo prolungati, come nel caso italiano, provoca fenomeni di rilevante criticità sociale. Ci riferiamo in particolare alla Sotto-occupazione, alla Disoccupazione cronica, alla Esclusione sociale, alla Disaffezione politica. Una lista di problemi che, se non affrontati, si incancreniscono e contaminano per sempre la crescita delle nostre generazioni.
Vale la pena riflettere su alcuni altri numeri fornitici dall’Ocse, prima di provare a immaginare qualche reazione, qualche segnale di contrasto a questo trend negativo.
In Italia i giovani compresi nella fascia 15-29 anni che non fanno nulla, almeno formalmente (quelli “al servizio” della malavita non sono ovviamente registrati nelle statistiche ufficiali!) sono dunque due milioni e mezzo. Nel 2007, agli albori dell’ultima crisi economica, la percentuale dei Neet sul totale della popolazione giovanile nel nostro Paese era del 19.5% (quattro punti al di sopra della media dell’Ocse ferma al 13.6%). Nel 2016 è salita al 26%. Dieci anni fa avevamo in Italia un Neet ogni 5 ragazzi, oggi ne contiamo uno ogni 4. La differenza fra maschi e femmine è del 4% circa e questo ci dimostra che il problema è generale e non soltanto di genere.
Che fare prima di appiattirci irreversibilmente su una presa d’atto miope ed angosciante? Proviamo a ragionarci sopra insieme.

1.    Innanzitutto Pickett crede che il futuro del mondo e soprattutto della nostra cara ma zoppicante Europa stia nei giovani e nella loro capacità di acquisire competenze ed esperienze tali da potersi candidare a diventare una classe dirigente adeguata alle nuove complessità del Villaggio Globale. Se questo è vero e fosse condiviso, bisognerebbe allora che i governi dei singoli stati e a maggior ragione quindi quello dell’Italia, ponessero la questione giovanile come una priorità di politica economica e sociale dello sviluppo. Non semplicemente con delle slides o delle promesse in campagna elettorale ma con dei provvedimenti concreti che potessero incidere su questo scenario invertendone il trend negativo.
Un esempio contrario: nell’ultima legge di stabilità del governo italiano, l’80% delle risorse pubbliche dirottate verso gli investimenti, sono state dedicate alle “nostre” generazioni, alla seconda o terza età. La spesa pensionistica e quella sanitaria hanno drenato infatti i 4/5 delle minori risorse pubbliche a disposizione. Soltanto un marginale del 20% è stato allocato per ricerca, sviluppo, formazione e attività connesse con la questione giovanile.  Lo specchio del perché siamo arrivati a detenere il tragico primato sui Neet!
Bisogna cambiare direzione e, tenendo conto delle minori risorse a disposizione, concentrarle su interventi mirati al recupero di una gran parte di quei due milioni e mezzo di ragazzi, fuori dal circuito, che soltanto grazie ad un welfare famigliare, sussidiario e ancora possibile, possono permettersi di vivacchiare, distruggendosi il cervello nella solitudine del proprio status o nella “finta” partecipazione alle vicende del mondo tramite i device.
Pietro Paganini e Stefano Cianciotta nel loro saggio “Allenarsi per il futuro” sottolineano l’importanza di focalizzare gli interventi sui giovanissimi orientandoli al sapere professionale e indirizzandoli in questo percorso facendo di tutto per favorire l’alternanza scuola e lavoro. La scuola, secondo i due autori, non rispecchia mai le grandi trasformazioni sociali del Paese: se non si inverte questa tendenza, si finirà col depauperare di forza lavoro le imprese puntando invece a gremire il fiacco e scontento esercito dei Neet.
Nel considerare la questione giovanile come una priorità di sviluppo del Paese bisogna dunque concentrarci su politiche attive del lavoro che pur nel rispetto delle esigenze dei diversi territori, siano concentrate e dirette da una cabina di regia centrale che allochi le risorse e quindi gli interventi in maniera razionale e fondata su principi di meritocrazia anche e soprattutto con riguardo alla categoria dei formatori.
2.     A Torino esiste un luogo che è diventato un esempio di sperimentazione, ormai consolidata, di politiche attive che ineriscono al recupero di giovani provenienti dal disagio sociale in senso lato e a cui viene data la possibilità, attraverso un format innovativo di scuola e lavoro, di acquisire un mestiere e di sperare di trovare nel futuro un posto di lavoro. Ci riferiamo alla Piazza dei Mestieri che ormai oltre alla sede storica torinese (inaugurata oltre 15 anni orsono) ha replicato il suo positivo modello organizzativo anche a Catania e sta riflettendo su ulteriori esperimenti in altre città italiane.
A Torino ci sono circa 500 ragazzi e ragazze che dividono il loro tempo tra una formazione in aula e una esperienza in concreto del “mestiere” prescelto. A Catania, dopo soli due anni e mezzo dall’avvio, sono già circa 800 i ragazzi che hanno deciso di aderire a questa straordinaria opportunità. La Piazza rappresenta proprio la sintesi, non esclusiva, intendiamoci, ma stimolante, di quel modello di alternanza tra scuola e lavoro che da un lato offre ai nostri ragazzi una forma di apprendimento più “sexy” rispetto a quella tradizionale e dall’altro recupera il valore di certi mestieri alternativamente dimenticati o comunque delegati ad altri; infine permette, in concreto, di avere una chance, al termine del corso formativo, di poter inserirsi nel mondo del lavoro ricevendo offerte da aziende, sponsor della Piazza durante la formazione, che hanno investito su questo modello per poi avere risorse adeguate ai loro bisogni aziendali.  Senza volere enfatizzare in maniera eccessiva l’esperimento della Piazza dei Mestieri, Pickett ritiene però che tale modello rappresenti un benchmark di riferimento che, in un Paese normale, dovrebbe essere assunto come esempio nazionale per lo sviluppo di politiche attive del lavoro basate sulla meritocrazia, sulla solidarietà e sulla alternanza di formazione in aula e di lavoro concreto su mestieri che abbiano davvero, alla fine del corso di formazione, delle possibilità di “domanda” da parte del mondo imprenditoriale.
3.     Una terza area di intervento è, ad avviso di Pickett, di tipo culturale. Il benessere sviluppatosi negli ultimi 30/40 anni ha dato vita ad una serie di storture culturali di cui oggi paghiamo un prezzo molto alto. Ci riferiamo alla sicurezza nel posto di lavoro, alla preferenza verso un lavoro dipendente rispetto a quelli con un rischio imprenditoriale intrinseco, alla mancanza di una cultura dell’assunzione del rischio che è fondamentale per lo sviluppo di una comunità in cui esistano ancora degli esponenti della classe dirigente che abbiano la voglia, la determinazione e la professionalità (unite a passione ed energia) per intraprendere, per avviare nuove imprese, per assumersi il rischio di start-up innovative e potenzialmente creatrici di nuovi posti di lavoro. Bisogna uscire dalla logica dei “bamboccioni” ed entrare nel mondo degli “imprenditorini”. Siamo alle soglie (per alcuni ci siamo già dentro fino al collo!) di una seconda straordinaria rivoluzione tecnologica: dopo Internet stiamo entrando nel cosiddetto format della Intelligenza Artificiale. Quella che per alcuni potrebbe essere giustamente definita la società dei robot. Una società in cui le macchine, prodotte dalla intelligenza degli uomini, potrebbero via via sostituire i loro … inventori, potendo detenere anche, alla lunga, come abbiamo visto in molti film che pensavamo e definivamo di fantascienza, il potere.
Una rivoluzione che non porterà sicuramente buone notizie sul fronte del lavoro; sulla trincea della creazione di nuove opportunità lavorative per le nuove generazioni.

A maggior ragione Pickett ritiene che sia questo il momento storico in cui si debba affrontare la questione formativa dei nostri giovani in maniera lucida, visionaria e proattiva, anche a rischio di ridurre le risorse per le generazioni più anziane.
Il dato dell’Ocse non deve essere letto, registrato e semplicemente archiviato, deve costituire la molla per un cambio di mentalità, per uno scarto culturale e politico nell’affrontare questo tema. In termini di lessico aziendale, si chiama “time to market” e cioè la competitività la si gioca sul tempo di entrata sul mercato. Abbiamo volutamente citato questo termine anglosassone perché sintetizza molto bene, a nostro avviso, la sfida che abbiamo di fronte a noi, oggi e non domani: mettere la questione giovanile ai primi posti di ogni progetto politico cercando di individuare, con la collaborazione dei tanti autorevoli professionisti del settore, alcuni, selezionati interventi di tipo normativo o amministrativo che in poco tempo, a fronte di risorse economico-finanziarie date, possano incidere sullo scenario drammatico che emerge dal report dell’Ocse e incominciare a ridare speranza ai nostri ragazzi che non ne hanno più.

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