La concitata attualità ci ha distratto. La quotidiana “creatività” di Trump e le preoccupazioni provenienti da uno scenario internazionale sempre più fosco, ci hanno portato lontano intellettualmente da un tema spinoso apertosi, in modo clamoroso, lo scorso mese di dicembre. Un tema che ci tocca tutti da vicino: amanti, appassionati ma anche solo utilizzatori della Rete. La neutralità di Internet! La cosiddetta Internet Neutrality. Apparentemente un suggestivo slogan: in realtà, un valore che ci ha accompagnato in questi primi vent’anni di vita della più straordinaria invenzione tecnologica del millennio.
Perché è così importante? Quale significato ha e ha assunto l’indipendenza e l’autonomia della Rete?
Ad avviso di Pickett, un valore pregiudiziale che permette di connettere milioni e milioni di dati con milioni e milioni di individui. Il tutto basandosi su una infrastruttura a disposizione di tutti, allo stesso costo, fino ad oggi molto basso. In altre parole, il poter contare su un hardware strutturale, il cosiddetto “ferro”, indipendente ed autonomo dai contenuti software di produzione di terzi. Un’indipendenza e neutralità del “contenitore” prima che diventi “di parte” riempendosi, di volta in volta, di contenuti diversi. Questo è il principio solennizzato da Barack Obama con una dichiarazione formale nel 2015. La Rete è di tutti e di nessuno. È un patrimonio dell’umanità a favore dello sviluppo della conoscenza di tutta l’umanità. Non di questo o di quel paese. Non di chi è più ricco. Di tutti indistintamente. La prima conseguenza di tale principio fondante della Rete, riaffermato anche, recentemente, dalla Carta promulgata dal nostro parlamento, e che l’accesso alla Rete deve essere garantito a tutti, alle stesse condizioni.
“Ogni persona – è scritto nell’articolo uno della Carta approvata dal nostro parlamento – Il diritto che i dati trasmessi e ricevuti in Internet non subiscano discriminazione, restrizioni o interferenze in relazione al mittente, ricevente, tipo o contenuto dei dati, dispositivo utilizzato, applicazioni o, in generale, legittime scelte delle persone”.
L’articolo due recita: “il diritto ad un accesso neutrale ad Internet nella sua interezza è condizione necessaria per l’effettività dei diritti fondamentali della persona”.
Poi, il consumo può essere differenziato: chi usa di più i servizi della Rete pagherà di più secondo le tariffe dei vari Internet provider. Questo è il film condiviso e diffuso fino all’avvento del presidente Trump.
Uomini e donne della Rete questo quadro di riferimento è saltato: è stato abrogato e sostituito, nello scorso mese di dicembre, da un sistema di valori, anche economici, che altera profondamente il principio contenuto nell’articolo uno della Carta voluta dal presidente della camera dei deputati Laura Boldrini e approvata poi dal nostro parlamento nazionale.
Ricapitoliamo, dunque, cos’è successo negli Stati Uniti nei mesi scorsi.
Il nuovo presidente della Federal Communications Commission americana, Ajit Pai, appena nominato dal presidente Trump, ha annunciato il funerale della Internet Neutrality. L’abolizione delle regole contenute nella dichiarazione di Obama del 2015 è “una battaglia di libertà – sostiene Pai- perché consentirà agli Internet provider di fare come vogliono, offrendo accessi privilegiati e canali di trasmissione più veloci a chi paga di più.” L’unica condizione che rimarrà in vigore è quella della trasparenza e cioè della chiarezza sui diversi servizi offerti alla clientela degli internauti.
Tale riforma, sempre secondo Pai, spingerà gli Internet provider ad investire di più nell’innovazione, a vantaggio di tutti. Quali sono gli effetti di tale riforma, contestata vivacemente dal partito democratico? Innanzitutto una grave discriminazione nei confronti di chi ha meno mezzi e quindi non può pagare per avere un accesso privilegiato. Questo danneggerà tanto il business, in particolare quello delle start-up che non hanno molti soldi, quanto la libertà di espressione, perché ad esempio il sito di un’organizzazione politica, o anche di un media che ha più risorse, potrà promuovere i propri contenuti meglio della concorrenza, scriveva Paolo Mastrovilli su La Stampa. Il secondo effetto sarà costituito da un aiuto ai grandi service provider, tipo AT&T e Comcast, che da una parte potranno far pagare di più i loro clienti per l’accesso ad internet, e dall’altra avranno l’opportunità di favorire i propri prodotti. In altre parole, potranno mettere i loro contenuti su un canale preferenziale, più veloce, efficiente ma più costoso e rallentare invece quello dei concorrenti come Google, Amazon o Netflix. Mentre oggi quando facciamo l’abbonamento al telefono riceviamo la stessa capacità di fare chiamate e avere conseguentemente delle conversazioni e poi, ciascuno di noi, paga in base al consumo effettivo; un domani, neanche poi tanto lontano, ciascuno di noi pagherà prezzi diversi per l’accesso alla Rete. È venuta meno la garanzia di avere tutti lo stesso costo di accesso.
Oggi – ha scritto Federico Rampini sulla Repubblica – esiste il divieto per le società di telecomunicazioni di fare accordi con fornitori di contenuti o di servizi per accelerare i loro dati a scapito di chi non può permettersi di stipulare accordi analoghi. Tale divieto implica l’ulteriore divieto di bloccare determinati siti, applicazioni o contenuti.
Chi sostiene la neutralità della Rete vorrebbe che gli operatori di telecomunicazioni si occupassero solo di fare arrivare tutti i dati a destinazione. Non vorrebbe che si realizzassero corsie preferenziali che, per definizione, costringano chi non può accedervi a percorrere corsie più lente e congestionate.
Secondo coloro che contestano questa riforma di Trump, abrogare la neutralità della Rete significa – scrive Juan Carlos De Martin – consegnare le chiavi di Internet a chi ha il potere economico, a chi ha il portafoglio pieno e potrà pagarsi tutte le corsie preferenziali che vorrà: i suoi prodotti o servizi scorreranno più fluidi nella Rete, i suoi siti si caricheranno in un istante, le sue applicazioni saranno velocissime. Per De Martin non si tratta soltanto di una questione competitiva o di innovazione. “È anche e soprattutto una questione – cruciale – di libertà di espressione: chi non potrà pagare farà sempre più fatica a farsi sentire su Internet. Il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto si sta atrofizzando, o addirittura, come ha scritto il New York Times, sta morendo.”
La più immediata conseguenza di questa rivoluzione normativa non riguarderà noi utenti finali. Lo scontro reale sarà tra gli interessi di due settori specifici del capitalismo americano, di due categorie di giganti dell’attuale modello economico americano: old economy contro new economy. Con questa riforma – ha scritto ancora Rampini – vincono le Telecom, le società proprietarie delle infrastrutture fisiche o delle torri di trasmissione telefonica e Wi-Fi che avranno libertà di estrarre una rendita più elevata come “casellanti” delle autostrade digitali, oligopolisti del diritto di accesso on-line. Perdono invece le società produttrici dei contenuti, le Over the Top.
E allora… Che fare? Far sentire la nostra voce, la nostra ragionata protesta contro una norma che stravolge il principio fondamentale della rivoluzione digitale: l’accesso uguale per tutti, agli stessi costi, all’opportunità di aumentare le nostre conoscenze.
L’Europa per ora resiste allo tsunami neoliberista americano. Ma questo precedente è pericoloso perché i provider non vedono l’ora di spremere agli utenti quanti più quattrini possibile.
Qui si gioca un pezzo della democrazia che diciamo di voler proteggere e salvaguardare anche per le generazioni che verranno.
“Una volta le lotte sociali si facevano per il Welfare – scriveva ironicamente Marino Niola sull’Espresso – oggi la posta in gioco è il Welfare: cioè l’uguaglianza dei cittadini nell’accesso e nell’uso di Internet.”
La battaglia non è persa dipende da noi tenerla in vita e combatterla con ragionamenti di diritto, di equità e di buon senso.

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