Nell’oscillante disfida dialettica, per la verità ormai anche noiosa , tra i sostenitori del “come siamo caduti in basso” e quelli del “abbiamo tutte le risorse per smetterla di fare “i Tafazzi” si è inserito recentemente, sulle colonne del Corriere della sera, il sociologo Giuseppe De Rita. Con l’esperienza e l’acutezza di chi da decenni, dallo scranno del Censis, legge e decodifica il “chi sono diventati gli italiani”, arrivano riflessioni, stimoli, suggerimenti che vale la pena riprendere e “masticare” per bene. Proprio perché siamo, tra l’altro, in piena campagna elettorale e quindi, a maggior ragione, doverosamente attenti all’offerta politica che ci viene propinata quotidianamente.

Un Proprio per evitare di sprecare l’unico momento in cui, da cittadini-elettori, possiamo esprimere il nostro voto, la nostra scelta, la nostra visione del futuro. Per cercare di evitare quel suicidio intellettuale e politico che è costituito dal non votare. Il mandare, in altre parole, tutti al diavolo nascondendosi dietro a slogan come “mi hanno stufato”, “tanto non serve a nulla”, “non mi fido più, mi hanno ingannato troppe volte”.

Il pensiero di De Rita ci induce ad evitare questa deriva, umanamente comprensibile ma civicamente non condivisibile, portandoci, con il ragionamento, ad approfondire il grande tema del “di cosa abbiamo veramente bisogno per tornare a essere un paese normale”.

Si certo… abitato da noi italiani!

Proviamo a seguire l’articolazione del pensiero del sociologo del Censis.

Gli italiani, in questo inizio del  2018, sono portati, dal dibattito politico, a discutere sul tema del comandare e non sul tema del governare. I leader politici dei vari partiti si candidano ad assumere le vesti di condottieri che affronteranno i grandi cantieri aperti e non risolti del nostro paese, comandando, non governando. Questo è il punto di partenza del teorema di De Rita. Questo è l’errore di metodo che, secondo il sociologo, contamina poi i ragionamenti di ciascuno di noi. “Sull’argomento – scrive de Rita – si confrontano sia coloro che nutrono nostalgia di quando il comando l’hanno esercitato (D’Alema e Renzi) sia altri che si presentano come espliciti candidati ad esercitarlo in futuro (da di Maio a Grasso a Salvini) ….. oggi il Paese esprime il bisogno di qualcuno che “governi” e non di qualcuno che voglia più semplicemente “comandare”. Il vero problema della classe dirigente sta proprio qui, scrive De Rita. Non vi è la cultura di governo e si pensa di supplire a questo deficit enfatizzando la funzione di “comando” che è certamente essenziale nei singoli campi dell’azione pubblica, ma che mal si addice quando si tratta di pensare e di governare più vaste strategie di sistema.”

In questo contesto, i leader politici si offrono come potenziali comandanti con le loro schiere di fidati “soldatini”. Per impreziosire una qualità non sempre eccelsa dei candidati delle liste elettorali, i partiti cercano un po’ di “patrizia prole” che dia un po’ di decoro e appetibilità per gli elettori delusi e sulla via dell’astensione.

Secondo il pensiero di De Rita, la società civile, la cosiddetta “patrizia prole”, non ha nessuna possibilità di coprire le esigenze di governo sistemico: “nel suo orgoglio – scrive De Rita – non vuole fare truppa ma da parte sua non ha coltivato quell’arte della strategia (socio economica oltre che politica) che è l’anima e la sfida di chi vuole guidare la società nel suo complesso.”

E a questo punto del suo dire, De Rita introduce una metafora di carattere militare: la differenza fra intendenza e stato maggiore. Nel novero dei candidati delle varie liste dei partiti che si presentano alla prossima sfida elettorale, ritroviamo “magistrati di vario livello, alti burocrati, operatori della comunicazione, militari, qualche professore di diverse discipline: qualcuno di loro forse ha comandato nel proprio campo ma, a nessuno sfugge, il fatto che sono per natura uomini di “intendenza”; e viene naturale ricordare che Napoleone, avanzando per merito dei suoi marescialli, diceva con realismo che la “intendenza seguirà”. Con i marescialli infatti si vincono le battaglie e le guerre: con l’intendenza si possono gestire “le parate del giorno dopo e nel peggiore dei casi le faticose ritirate.”

Pickett non vuole a questo punto aprire una parentesi polemica con de Rita sul ruolo dell’intendenza: fu proprio una sottovalutazione di questo settore del suo esercito a far fallire la sua spedizione in Russia nel 1812. Ma a parte questa constatazione, a Pickett sembra corretto il richiamo alla differenza fra chi comanda, ha la visione strategica, legge il futuro e coloro che, invece, seguono, organizzando “la cucina” perché tutto ciò possa avvenire… L’intendenza appunto.

Secondo De Rita, che conclude così il suo ragionamento, ci stiamo avviando “verso una offerta elettorale costruita su nessun stratega, forse su qualche esponente di media o grande intendenza, su tanti potenziali peones e con naturalmente la immancabile quota di cacicchi locali con le loro tribù portatrici di voti. ”

Un’offerta strutturalmente povera, affidata quindi alle schermaglie di vertice e soltanto alla capacità mediatica dei singoli leader.

Come sperare di uscire da questo tunnel? Rompendo, secondo De Rita, questo continuismo: concentrandoci sul reale bisogno di questa società di andare oltre l’attuale malcontento rancoroso e di mettere in moto un nuovo ciclo di vitalità sociale.

Ma questo nuovo scenario non lo si costruisce con la promozione di carriera di coloro che hanno sempre fatto “intendenza” né con la promozione di una classe politica attratta prevalentemente dal mito del comando. Lo si realizza attraverso la costruzione di una classe dirigente politica che si sia formata sui banchi di scuola di centri di formazione istituzionale come lo furono le Frattocchie per i comunisti e la Camilluccia per i democristiani. Poi, anche, individuando nella società civile uomini che abbiano avuto responsabilità di gestire sistemi complessi e abbiano assolto le loro funzioni con professionalità, onestà intellettuale e sobrietà.

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