O rimuoviamo le cause della globalizzazione o non ne usciamo. Questo era l’assunto di un mio precedente intervento su Pickett che vorrei integrare con le considerazioni che seguono.

Immigrazione, disuguaglianze diffuse, avanzata di movimenti xenofobi con coloriture nazi-fasciste, lavoro sempre più flessibile, disoccupazione più o meno diffusa in molti Paesi soprattutto tra i giovani, ceti popolari e classi medie in rivolta. Il XXI secolo si sta rivelando un secolo di regresso sociale e i popoli occidentali, non soli, scendono in piazza a contestare la globalizzazione e i suoi effetti devastanti. Da più parti si protesta e si contesta quella forma di capitalismo ultra-liberista che sta alla base della globalizzazione. Sul banco degli imputati sta il capitalismo e l’accusa è di essere venuto meno a ciò che prometteva: un mondo migliore, con meno ingiustizie e disuguaglianze sociali.

Il capitalismo si basa su diversi principi ma due sono alla base della sua azione: LA CRESCITA e LA FIDUCIA IN UN FUTURO MIGLIORE.

Nel 1776 l’economista scozzese Adam Smith pubblicò LA RICCHEZZA DELLE NAZIONI, forse la pubblicazione economica più importante di tutti i tempi. Smith espose la seguente argomentazione innovativa: quando un proprietario terriero, un tessitore, un calzolaio ottiene un maggior profitto di quanto gli serve per mantenere la sua famiglia, egli utilizza il sovrappiù per assumere nuovi aiutanti, al fine di aumentare ulteriormente i suoi profitti. Quanti più profitti ottiene, tanti più aiutanti può impiegare. Ne consegue che un accrescimento dei profitti degli imprenditori privati è la base per l’accrescimento della ricchezza e della prosperità collettiva. In altre parole Smith dice che diventando più ricchi si crea beneficio a tutti non solo a sé stessi. Smith invitava a pensare all’economia come a una situazione WIN-WIN, in cui vincono tutti i partecipanti perché i miei profitti sono anche i tuoi profitti. Se io sono povero, tu pure sarai povero, perché io non posso comprare i tuoi prodotti o servizi. Per Smith essere ricchi significava essere virtuosi, i ricchi non depredano il prossimo, ma aumentano la dimensione complessiva della torta da spartire. Le conseguenze di questo modo di ragionare dipendono dal fatto che i ricchi usino i loro profitti per aprire nuove fabbriche e assumere nuovi impiegati, invece di sperperarli in attività improduttive. I profitti della produzione devono-dovrebbero essere reinvestiti per incrementare la produzione. (commento personale: perché la produzione non è solo il risultato del capitale). Il capitalismo si chiama capitalismo perché distingue il “capitale” dalla mera “ricchezza”. Il capitale consiste di denaro, beni e risorse che sono investiti nella produzione. La ricchezza è invece sepolta sotto terra, chiusa in cassaforte, sprecata in attività improduttive.

Alla fine di questo ragionare sorge una domanda: Il capitalismo della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo si è mosso secondo questi principi? Ha agito per la crescita collettiva?

Io ho una mia risposta, ognuno formuli la sua.

L’altro principio alla base del capitalismo, a cui accennavo, è: la fiducia in un futuro migliore. Questo principio determina la concessione del credito. Si presta denaro perché fiduciosi di ricavarne una quantità maggiore in un futuro più o meno prossimo. Questa concessione di credito può avvenire solo se si crede in un futuro migliore e positivo, in caso contrario la concessione del credito non avverrà. Domanda: quanti oggi credono che il futuro sarà migliore del presente? Certamente non i giovani e per quanto riguarda i vecchi stanno difendendo quanto accumulato in passato, timorosi che non possa bastare per il presente. Si fa un gran parlare di start-up, dei giovani che devono diventare imprenditori di sé stessi; ma quale credito viene concesso e a che condizioni? Il credito bancario è altamente selettivo e per i giovani è quasi impossibile accedervi perché non in possesso delle garanzie richieste e il futuro è sempre più nebuloso. Il credito è la differenza tra la torta di oggi e la torta di domani. Se non si ha fiducia in un futuro migliore la torta rimarrà invariata e saremo sempre più numerosi a pretenderne una fetta. Il capitalismo globale è venuto meno ai principi del capitalismo e gli effetti sono sotto i nostri occhi: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Nella gestione del credito le banche dovrebbero essere il motore della crescita, invece sono all’origine della catastrofe del 2007-2008 e ancora oggi si dilettano con derivati e altra immondizia finanziaria. Come sostenni nel mio intervento citato all’inizio: o si rimuovono le cause o gli effetti tenderanno a peggiorare la situazione.

Fidelio Perchinelli

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