Pickett l’aveva definita una Vergogna da cancellare. Subito! Senza “se” e senza “ma“! Invece, un mese dopo la tragedia di San Ferdinando, siamo di nuovo qui a confrontarci con altri morti. Con altre, insopportabili, illegalità. A trascorrere un Ferragosto di sangue, di ingiustizie, di tragedie inammissibili!
16 braccianti stranieri sono morti in due incidenti stradali mentre andavano al lavoro, stipati in furgoncini omologati per meno della metà dei reali trasportati. In più emerge un dato agghiacciante: il 64% delle aziende che operano nella filiera agro-alimentare, nel 2017, è  risultato irregolare, in base ai dati forniti dall’ Ispettorato del lavoro e dall’ Arma dei Carabinieri.

Sembra un’emergenza ma va avanti così da anni!

Siamo di fronte ad una nuova forma di schiavitù sostanziale e paradossalmente legalizzata: un fenomeno che sembra impossibile da arginare. Anzi, si implementa di giorno in giorno con l’aumentare dei disperati disponibili, a qualunque costo e assumendosi qualsiasi rischio pur di lavorare.
Una schiavitù che fa nuovi adepti. Costruisce le premesse per nuovi morti, per nuovi incidenti, per nuove drammatiche scene come quelle a cui stiamo assistendo in questi giorni in televisione. I protagonisti involontari di questa tragedia sono proprio i nuovi schiavi del 2018.

Di loro non si occupa nessuno dopo le prime 24-48 ore successive alla loro morte. Cosa sta succedendo? Come mai siamo, come comunità, come popolo, come italiani, caduti così in basso? E non siamo sicuramente i soli: siamo in “ottima“compagnia! Come mai tanta distrazione, tanto egoismo, tanta becera miopia?
Da oltre due anni, nel nostro paese, è in vigore la legge sul caporalato, lo schiavismo di questo III millennio.

Eppure… eppure non è cambiato nulla. Ci interessiamo, per qualche ora, al nuovo lutto. Lo commentiamo, magari in spiaggia, tra i tanti discorsi sotto l’ombrellone. Alcuni si scandalizzano. Altri se ne rammaricano distrattamente. Altri ancora arrivano a dire “non poteva che finire così!“.

Proviamo allora a fermare il nastro per un attimo e ragionarci sopra insieme. Almeno assumiamoci la responsabilità di voler capire che cosa stia succedendo in Puglia e in tutte le Regioni italiane dove il settore agricolo è prevalente e importante.

Pickett ritiene che questa drammatica emergenza si debba analizzare sotto due angoli di visuale: (a) la legalità o, meglio, la illegalità del fenomeno alla luce della normativa vigente e le sue possibili, auspicabilmente immediate, ipotesi di soluzione; (b) il modello di business della filiera agroalimentare: dal produttore al distributore, al rivenditore finale. Bisogna avere la voglia e la responsabilità di rivisitarlo questo modello e possibilmente modificarlo a breve. In caso contrario saremo tutti, come vedremo tra poco, complici di questa nuova forma di schiavitù che sta implementandosi davanti ai nostri occhi, grazie anche alle nostre scriteriate decisioni di consumo.

Ma andiamo con ordine.
(a) Il tema della legalità.

La legge numero 199 del 2016 che disciplina la nuova normativa sul caporalato, proprio con il fine di scongiurare il fenomeno, ha introdotto pene più gravi non solo nei confronti degli intermediari, ma anche dei datori di lavoro, per i quali è previsto anche l’arresto in flagranza. La reclusione può andare da uno a sei anni e le multe da 500 a 1000 € per ogni lavoratore reclutato. Se i fatti sono commessi con l’aggravante della violenza o delle minacce, la pena può arrivare fino a otto anni. Sono previsti anche degli indennizzi a favore dei lavoratori che hanno subito tali illeciti. È disciplinata inoltre la confisca dei beni, del denaro e dei proventi delle attività illecite se queste vengono commessi da imprenditori. Le imprese responsabili di tali reati sono commissariate, in attesa degli accertamenti processuali, in modo tale da garantire comunque la continuità del lavoro senza però il perpetrarsi delle illegalità.

I primi due anni di esperienza dall’entrata in vigore di questa nuova normativa hanno evidenziato però alcune criticità: nei vari territori interessati dalla norma è prevista, ad esempio, l’istituzione di un elenco delle imprese che operano nel settore, elenco istituito presso l’Inps. L’adesione a tale elenco delle imprese è però (sic!) facoltativa e coloro che non aderiscono non hanno alcun tipo di penalizzazione. Risultato: su circa 200.000 imprese registrate in Italia nella filiera agroalimentare, soltanto 3.600 di esse si sono iscritte all’elenco istituito dalla legge 199 del 2016. Un buco nero nella monitorizzazione e vigilanza degli attori dello scenario.
Si è aperto un dibattito sulle possibili modifiche di questa norma: si va dalla posizione della Lega che vorrebbe l’abrogazione della legge in quanto, invece di risolvere i problemi, li complica, a quella del Movimento 5 Stelle che ritiene che, per essere applicata meglio, debbano essere effettuati più controlli, rafforzando l’Ispettorato del Lavoro. Per il PD la legge va bene… basta applicarla!
Una seconda criticita’: la legge 199 non si occupa specificatamente né dell’alloggiamento né del trasporto dei braccianti utilizzati nei campi. L’articolo 8, comma 4 ter della norma però recita: “Le sezioni territoriali promuovono la realizzazione di funzionali ed efficienti forme di organizzazione del trasporto dei lavoratori fino al luogo di lavoro.

Questo punto della norma non è stata però mai applicato nonostante qualche sporadico tentativo sia avvenuto a livello regionale. Proprio la Regione Puglia, ad esempio, fin dal luglio del 2016 ha firmato un protocollo per permettere ai braccianti di viaggiare in maniera decente, senza essere “strozzati” dai caporali e rischiare la vita ad ogni chilometro. Sul tavolo la giunta regionale pugliese aveva messo un milione e mezzo di euro, ma le associazioni dei datori di lavoro non hanno mai voluto indicare i luoghi di raccolta dove prelevare i braccianti. Il risultato? Il caporale di turno continua a guidare il pulmino, dunque il sistema non è cambiato;  il milione e mezzo di euro non è stato speso ; i ragazzi continuano a crepare sulle strade della Puglia.

E ancora: nonostante l’entrata in vigore della 199, continuano ad esistere i ghetti che, per i lavoratori interessati, rappresentano l’unico sito-mercato per ottenere un ingaggio sicuro, dove i caporali, ogni mattina, vanno a scegliere i loro “schiavi“.

Nel 2018, sempre la Regione Puglia, la più coinvolta in questa tragedia, ha emanato una norma (la numero 29) che prevede la creazione di uffici che possano mettere in relazione domanda di lavoro e offerta, eliminando così, almeno in teoria, l’intermediazione dei caporali, e annullando il loro ruolo essenziale in questo infame meccanismo. È ovvio però che, anche in questa ipotesi, debba esistere la volontà delle imprese ad attingere dagli elenchi pubblici perché altrimenti torniamo al “mercato del ghetto”. E così è stato finora: pochissimi ingaggi presso gli uffici pubblici. Il 90% quotidiano delle “assunzioni” avviene dentro i ghetti, nelle carceri sostanziali dove vivono i braccianti.
Prima di entrare nel merito delle proposte in discussione al prossimo Consiglio dei Ministri, è opportuno fissare alcuni paletti fondamentali per una corretta analisi di questa problematica.
Innanzitutto questi braccianti, al 99% stranieri, (gli italiani non compaiono nelle liste: non sono più disponibili a fare “carne da macello” per uno stipendio da fame!) hanno i documenti a posto. Sono regolari. Hanno dei contratti scritti con le imprese agricole locali. Se arriva un controllo risultano formalmente a posto. C’è un però…: in busta paga vengono conteggiate molte meno giornate di quelle effettivamente lavorate. Si parla di circa la metà. In tal modo la paga prevista da 7 euro all’ora per 6 ore mezzo al giorno, diventa di effettivi 3-3,50 € all’ora che le imprese pagano per le 8 ore lavorate. Ma nelle tasche del bracciante arriva ancora meno: il caporale infatti trattiene una percentuale sul lavorato (dai 5 ai 10 €) e una quota per il costo del trasporto (5 euro). A questo deve aggiungersi il costo dell’alloggio di circa 50 € al mese. Ecco perché nascono e proliferano i ghetti che diventano dei territori dove la legge non esiste: i diritti sono sospesi. Ma continuano ad esserci perché così vogliono i caporali. Una realtà tremenda che trova la sua origine, come abbiamo visto, in una connivenza importante di molti dei protagonisti della filiera interessata.
Veniamo, finalmente, alle proposte del Viminale.
Il governo ha annunciato, a breve, tre misure di intervento: il rafforzamento dell’organico della Procura e della Questura di Foggia; maggiori controlli sui furgoncini per il trasporto nei campi; lo svuotamento dei ghetti.
Sulla carta non ci sarebbero obiezioni: nella realtà, quando si incomincia ad entrare nei dettagli delle misure immaginate dal Ministro dell’Interno, si entra in una zona grigia, quasi di “gommapiuma“ in cui, apparentemente, tutte le promesse sono attuabili ma, nella realtà, la loro esecuzione diventa complessa. Non solo per mancanza di risorse economico-finanziarie ma proprio per la rigidità della burocrazia che rende tutto più difficile e complicato. Maggiori risorse negli organici della Procura e della Questura del territorio vogliono dire spostamenti di magistrati, allocazione diversa delle risorse della polizia, interminabili procedure amministrative piene di scartoffie e timbri. Stessa constatazione vale per l’aumento dei controlli della polizia stradale sui furgoncini che trasportano i lavoranti nei campi: negli ultimi tre mesi sono stati accertati 300 furgoni con targa bulgara assolutamente illeciti dal punto di vista della normativa italiana. Tutti sequestrati… ma il fenomeno è continuato con chissà quale rilevanza e ampiezza. Rinforzare i controlli sulle strade vuol dire più risorse umane e professionali sul territorio… annunci che sentiamo da mesi senza poi averne riscontro reale.

(b) Il tema del modello di business da rivedere.

Carlo Petrini, in un editoriale di questi giorni su La Repubblica, affronta proprio questo tema, “a monte“ del fenomeno dello schiavismo dei braccianti.

La tragedia dello sfruttamento della manodopera bracciantile – ha scritto Petrini – è figlia di un sistema distorto di cui, purtroppo, anche noi cittadini siamo complici, spesso inconsapevolmente.

Ci siamo trovati tutti di fronte a promozioni commerciali – ha spiegato – che pubblicizzano a caratteri cubitali sconti imperdibili e altre meraviglie. A leggere determinati prezzi si rimane a bocca aperta: ma cosa c’è dietro tutto questo?
“È il Modello che va cambiato – sostiene Petrini- bisogna accendere i riflettori sul meccanismo delle aste a doppio ribasso, una pratica di acquisto ampiamente diffusa tra gli operatori della grande distribuzione organizzata che mette in difficoltà, con un effetto domino, l’intera filiera agroalimentare. Attraverso due aste consecutive – ha spiegato Petrini – i fornitori sono forzati a fissare prezzi sottocosto per i loro prodotti al solo scopo di restare nel giro e di non perdere il posizionamento a scaffale. Un meccanismo che ovviamente poi obbliga questi stessi fornitori a rifarsi sui produttori e questi ultimi sui lavoratori salariati, con un circolo vizioso che puzza dalla testa e che spesso si traduce in fenomeni come quelli del caporalato e dello sfruttamento nei campi”.
I protagonisti si difendono coi soliti slogan sull’impotenza di fronte alla “cattiveria del mercato a cui purtroppo bisogna adeguarsi“.
La ragione alla base di tutto questo è chiara – scrive Petrini – il cibo è diventato pura commodity soggetta ad una spregiudicata economia di scala che ha come fine ultimo solo e unicamente l’abbattimento dei prezzi“.
E, aggiunge ancora, “la filiera del pomodoro non è l’unica essere interessato dal fenomeno ma potremmo tranquillamente parlare di quella del latte, dell’ olio e persino del vino e di alcuni formaggi“.
Petrini conclude la sua fotografia di questa drammatica situazione con una importante considerazione generale: “il problema è che dietro ad un barattolo di passata o di pelati venduto a 0,80 € al litro c’è un sistema produttivo che non può stare in piedi e che, soprattutto, non può dare qualità, né alimentare né sociale. A perderci sono sia i consumatori che i produttori. I primi perché dietro l’illusione della convenienza, si vedono propinati prodotti che o non hanno standard qualitativi alti o nascondono situazioni umane non tollerabili, oppure entrambe. I produttori perché sono schiacciati da un meccanismo perverso che li impoverisce e li pone in costante competizione al ribasso alimentando una guerra tra poveri“.
Secondo il grande “guru“ del food italiano di qualità, serve una nuova visione da parte dei cittadini-consumatori : “non possiamo più accettare di essere abbindolati da prezzi che sono bassi solo nominalmente perché generano danno al sistema economico e sociale. Dobbiamo richiedere prezzi giusti a fronte di una buona qualità; dobbiamo provare ad incidere su filiere che penalizzano gli ultimi, i più deboli e, non dimentichiamolo mai, anche l’ambiente“.

A questo proposito è stata presentata alla Commissione europea una proposta di direttiva comunitaria sulle pratiche commerciali sleali che mira proprio a proteggere quei piccoli che oggi rischiano di venire schiacciati.

Se approvata – conclude Petrini – verrebbero finalmente introdotte regole più chiare per contrastare i metodi sleali come le aste al doppio ribasso e meccanismi di tutela sull’intera filiera, riducendo lo strapotere dei colossi della distribuzione. L’augurio è che i governi si facciano rapidamente carico di trasformare in realtà questa proposta“.

La verità è che oggi in Italia non si riconosce all’agricoltura il valore che produce – ha scritto Dario Di Vico sul Corriere della Sera – tutti pretendiamo che dai campi arrivi più qualità e insieme maggiore tracciabilità ma alla fine non siamo disposti a pagare né l’una né l’altra“.
Siamo tutti dei convinti sostenitori dell’importanza dell’export dei nostri prodotti alimentari: organizziamo seminari per discettare su come far riconoscere e pagare al mercato internazionale la qualità italiana. Siamo giustamente orgogliosi quando passeggiamo per New York o per Londra e vediamo che gli americani e gli inglesi affollano i punti vendita dei campioni del made in Italy. Ma allora, ci esorta Di Vico, “dovremmo anche essere capaci di distribuire il dividendo del successo in maniera più equa“.

In altre parole, aggiunge Pickett per concludere il ragionamento, non dimentichiamoci dei soggetti più deboli, di quelli che si occupano della raccolta nei campi, sotto il solleone, proprio di quei prodotti di cui poi tutti ci vantiamo e ci sentiamo orgogliosi di averne un pezzo di paternità.

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