“No grazie: non me la sento!”. Una simile risposta è diventata il mantra di un progetto sociale in campo agricolo a cui Pickett ha collaborato fin dalla sua ideazione. Quasi un paradigma di un incredibile paradosso che ci sta intorno e aleggia nel nostro quotidiano vivere insieme. Tutte le indagini di mercato ci ripetono da qualche anno con una martellante e angosciante puntualità che la povertà nel mondo è in aumento esponenziale! Che i nuovi poveri sono ormai diventati tantissimi. Che il tema sta diventando l’ossessione degli enti ecclesiastici che vedono ogni giorno aumentare le code davanti alle cucine delle loro mense della solidarietà. Insomma un contesto di impoverimento tale da minare, in alcuni paesi, la stessa convivenza civile. Ebbene in questo allucinante film sulle conseguenze di una crisi economica che ormai morde le carni di milioni di persone, ci capitano fenomeni sorprendenti. Paradossali. Quasi inconcepibili. Indicatori di una realtà, se possibile, ancora peggiore, ancora più difficile da decodificare. Un misto di pigrizia contaminata dai vizi consolidati nel tempo che, pur in presenza di un lavoro e, udite udite, di una casa, di un tetto, porta i cosiddetti “nuovi poveri”, o almeno una parte di essi, a dire dei No, non sempre associati ad un “grazie lo stesso. Non me la sento”. “Troppo faticoso! Non sono abituato. Troverò una soluzione diversa ai miei problemi quotidiani di sopravvivenza.”

Come mai? Com’è possibile? Piuttosto che lavorare in campagna, in attività agricole, con a disposizione un tetto e una “paghetta”, stando in mezzo a degli altri esseri umani e recuperando la dignità di un lavoro con un alloggio dignitoso, si preferisce un rifiuto, accontentandosi di vivere di espedienti, girovagando a chiedere l’elemosina, condividendo le notti al freddo con altri consimili nella stessa drammatica situazione.

Pickett vuole raccontarvi questa storia incredibile, allucinante se non fosse accaduta proprio in questi giorni, vicino a noi, a qualche chilometro da Torino, nella campagna intorno a Santena, la città degli asparagi. Nella cascina Massetta, da quasi tre anni, è stato lanciato un progetto sociale mirato ad offrire ai disoccupati o ai mai occupati un’abitazione, un lavoro, un’opportunità per abbandonare la solitudine devastante della povertà. L’associazione Agritorino costituita da molti degli enti della solidarietà torinese, città non dimentichiamolo, dei santi sociali che nei primi anni dell’ottocento lanciarono proprio una nuova modalità di occuparsi di quelli meno fortunati di noi, ha immaginato un’operazione che, basandosi sulla concessione in comodato di una cascina diroccata di proprietà della Fondazione Barolo, grazie al contributo economico della Compagnia di San Paolo, ristrutturasse l’immobile per farlo diventare un centro di accoglienza per i bisognosi, offrendo loro anche l’opportunità di poter imparare un mestiere e di occuparsi di varie iniziative agricole in corso di definizione. Si è partiti proprio da un allevamento di galline che oggi produce ogni giorno circa 600 uova. Lo start-up del progetto è stato seguito dagli esponenti dei vari enti seduti al tavolo promosso da Agritorino (Cottolengo, Sermig, Salesiani, Piazza dei Mestieri, PerMicro, i Padri Somaschi e molti altri ancora) coordinati dall’architetto Paolo Guerci che è diventato il Pivot del progetto assumendone direttamente la gestione con Bruno Paganotto, il primo che ha creduto nell’iniziativa ed ha iniziato il suo percorso di vita alla cascina Massetta. L’allevamento di galline con la produzione di uova procede positivamente, al di là delle più rosee previsioni. Adesso è venuto il momento di aumentare il numero dei membri della squadra al lavoro sul campo. Di qui nasce la paradossale situazione che abbiamo descritto all’inizio di questo articolo. Ma sentiamo la lucida lettura di questo inquietante fenomeno direttamente dalla voce di Paolo Guerci, il driver dell’operazione. Paolo è un uomo che nel suo recente passato ha vissuto momenti duri, di dolore, di sofferenza ma ha saputo leggere la sua situazione, rivisitando i suoi errori e ripartendo per una nuova vita. E’ diventato così uno dei tanti volontari del Sermig al Villaggio Globale di Cumiana e di lì ha maturato idee ed esperienze per candidarsi a gestire il progetto della cascina Massetta. Ricordiamoci che il progetto di Agritorino a Santena mira a ridare speranza a chi l’ha persa, un tetto a chi non ce l’ha più, un lavoro a chi non l’ha mai avuto o lo ha perso per strada.

Sì è paradosso – ci racconta Paolo Guerci – quando l’assistenza diventa norma è complesso, e quasi impossibile, costruire. Il nodo è che, a volte, l’assistenza rende in comodità chi la riceve (e lava la coscienza di chi la fa).

Ci troviamo scalzi davanti al paradosso.

Alla povertà bisogna essere educati. E’ Parola nei Vangeli, ma chi lo sa?

L’educazione alla povertà muove il lavoro da fare in sorriso, il freddo nello stare insieme, le ossa che fanno male in thè caldo.. la fatica non si sente e la Parola diventa Speranza.

Spesso chi arriva qui a ritirare le borse cibo ha automobili che valgono 10 volte le nostre. Ha buone scarpe, e, pur in lamento per l’assenza di lavoro, non entrerebbe mai nel pollaio. Chi arriva non mi sembra in povertà.

Prende il cibo come fosse in acquisto, come fosse al mercato. Alcuni sono in malcontento per il ripetersi degli alimenti. Altri chiedono maggior scelta. (!)

Chi poi ha passato qualche ora in lavoro prende pause, e si dichiara, dopo poche ore, stanco.

La categoria sociale a cui faccio riferimento e che qui abbiamo visto, non credo sia ‘in povertà’ (magari, per quanto scritto sopra, lo fosse) ma piuttosto in ‘inadattabilità’. Non parlo di individui che hanno subito una caduta non importa per quale causa (questi, nel tempo, si tirano fuori dal guaio), si tratta di persone inadatte ad affrontare il lavoro. Ecco, questo credo sia il tema.

Lavorare in Massetta per chi viene qui in inverno non è facile.. sa di terra bagnata, di dove metto i piedi se no mi bagno, di umido sopra e sotto, di calli alle mani, di inchini continui per prendere, portare e spostare, di carriole mosse a cui affonda la ruota, di ghiaccio rotto per far acqua, di legna da fare, di fiamma per aprire i lucchetti. Sa di povertà. Ha ragione Rinaldo Canalis, la soluzione non è facile. Per questo “noi continueremo a portare acqua alle anfore..”.

Non bisogna scoraggiarsi ma il tema è effettivamente impressionante, ostico. Come dice Rinaldo, l’instancabile volontario del Sermig che gestisce direttamente l’angosciante problema del confronto quotidiano con chi ha perso tutto compresa la speranza, dobbiamo prenderne atto e studiare una nuova metodologia di assistenza e accoglienza che aiuti la rinascita anche di quegli esseri umani che , viziati probabilmente nel periodo dell’opulenza consumistica, oggi, nonostante vivano in situazioni pietose di grande bisogno psicologico e materiale, non si adattano a ricominciare dai lavori più modesti, più faticosi , quelli che, non dimentichiamolo, erano invece tipici e apprezzati dei nostri nonni. Dobbiamo inventarci un metodo di intervento che non serva soltanto a pulire le coscienze di chi si occupa di solidarietà ma che coniughi in maniera virtuosa un bisogno reale di aiuto con l’incapacità di acquisire consapevolezza sul contenuto della ripartenza. Di una speranza da ricostruire con umiltà e modestia e con la disponibilità a ripartire anche attraverso il sacrificio, la fatica, l’impegno, la perseveranza. Solo così potremo trovare soluzioni per un tragico problema che ci affliggerà ancora per molti anni.

Ricordo una battuta del nonno del mio amico Stefano: di fronte alla pigrizia degli esseri umani a svolgere mansioni che richiedevano impegno, fatica e sofferenza e a coloro che di conseguenz<a si rifiutavano di lavorare rispondeva in piemontese: “evidentemente non ha mai avuto o non hai ancora i piedi al freddo!”.

Una grande verità che però non ci deve portare a desistere, a rinunciare ad un’opera assistenziale che oggi è fondamentale, proprio in questa sua, a tratti, incomprensibile articolazione, per cercare di dare una speranza e una dignità a chi, per le ragioni più diverse, sta peggio di noi.

Pensiamoci: tanto e bene.

Riccardo Rossotto

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