Nello scontro, anche giudiziario, sulla decisione del Ministro degli Interni di “chiudere i porti” italiani, cerchiamo di fare chiarezza. Ci aiuta, l’ormai ex Procuratore Capo della Repubblica del Tribunale di Torino, Armando Spataro che ne ha fatto una brillante sintesi sulla Repubblica di sabato scorso. Una ricostruzione di parte, certo, ma molto chiara nel fornirci il perimetro normativo nel quale dobbiamo cercare di districarci. Nell’assoluto rispetto delle opinioni di ciascuno di noi, Pickett è convinto che per farsi una idea di cosa stia succedendo nel Mediterraneo, sia preliminarmente necessario conoscere i principi normativi esistenti ed accettati dagli stati membri dell’Unione Europea.

Solo così si potrà poi attuare una decisione politica e, soprattutto, farsi promotori di quelle modifiche che, nel merito, possano far risorgere una strategia europea comune in materia d’immigrazione e accoglienza. Ciò, sul presupposto che gli accordi di Dublino sono superati, penalizzanti per alcuni paesi come il nostro, tali da dover essere al più presto rivisitati.

Soltanto in questo modo, nell’imminenza della campagna elettorale per le prossime elezioni europee, i vari schieramenti politici si posizioneranno sul punto e noi elettori potremo decidere a chi attribuire il nostro voto.

Torniamo dunque a rileggere e cercare di capire come sia disciplinata giuridicamente la materia del “Soccorso in mare”, con i relativi obblighi degli stati e la loro più o meno ampia discrezionalità nell’applicazione legale.

Le norme di riferimento sono molteplici: (i) il diritto d’asilo è previsto sia dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 sia dalla nostra Costituzione; (ii) il “soccorso in mare” è normato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982 e da vari e ulteriori trattati e convenzioni internazionali (la più rilevante è quella di Amburgo del 1979).

La sequenza procedurale è la seguente, scansionata in due fasi: (a) quella del ricevimento di un segnale di aiuto/pericolo per delle vite umane; (b) quella dell’avviamento dei naufraghi ai centri di accoglienza (HOTSPOT).

Prima di entrare nel merito è necessaria una premessa: tutti i paesi membri dell’Unione Europea devono innanzitutto dichiarare l’area marittima di propria competenza denominata SAR (Safety and Research, cioè l’area di ricerca di salvataggio). Questa autodichiarazione riguarda un tratto di mare normalmente più ampio di quello delle acque territoriali. Fatto ciò, ogni stato membro deve dotarsi di un Centro Nazionale di Coordinamento e di appositi piani operativi. Gli stati costieri, come l’Italia, devono anche istituire un servizio permanente di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea.

E veniamo alla scansione dei vari passaggi della procedura condivisa e accettata da tutti i membri dell’Unione Europea.

Il primo centro che riceve la segnalazione di un pericolo per la vita umana (il classico esempio di quello di un natante in fase di naufragio o comunque di difficoltà) coordina con urgenza le necessarie operazioni di salvataggio finché il paese della SAR più vicina non ne assuma la diretta direzione.

Il centro di coordinamento competente deve allora segnalare ai soccorritori o a chi si trova in pericolo il porto più sicuro verso il quale dirigere la nave che ha effettuato il soccorso.

In questo porto dovrà quindi essere organizzato lo sbarco e deve avvenire quanto prima e in tempi ragionevoli.

Dopo l’attracco, come previsto dalla normativa nazionale, è prevista la fase di controllo medico mirata alla verifica della presenza a bordo di persone malate o portatrici di patologie infettive.

Esaurita tale fase di controllo preventivo, si passa a quella dello sbarco vero e proprio che segna la conclusione della fase di soccorso.

I migranti sono allora avviati verso un punto di prima accoglienza (gli HOTSPOT) per le operazioni di polizia e di sicurezza che riguardano la loro identificazione.

Ai migranti sono fornite immediatamente le informazioni sulle norme vigenti nel paese di accoglienza in tema d’immigrazione.

Segue poi la fase di trasferimento in strutture di accoglienza dei minori non accompagnati, delle donne vittime di violenza e di chi abbia già richiesto asilo nelle sue varie forme o dichiari di volerlo fare.

Per i richiedenti, è previsto il diritto a vedere esaminata dalle autorità competenti la loro richiesta al più presto, fino all’esaurimento delle procedure che includono anche il ricorso avanti l’autorità giudiziaria ordinaria contro l’eventuale rigetto delle istanze da parte delle commissioni territoriali.

In assenza di richieste di asilo, può essere avviata la procedura di rimpatrio.

Durante le due fasi sopra descritte, può essere limitata la libertà di circolazione e spostamento dei migranti per motivi di sicurezza e ordine pubblico da individuare specificatamente.

Tutti i vari passaggi della procedura integrano gli obblighi di soccorso in nome dei diritti umani, incluso il divieto di respingimento.

Teniamo presente che tali obblighi non sono condizionati dal principio della reciprocità tra stati.

Se Malta, ad esempio, viola tali obblighi ciò non esime l’Italia dal rispettarli.

In questo quadro normativo il Ministero degli Interni dello stato membro ha, come scritto, una sua discrezionalità nel disciplinare l’accoglienza, alla luce di motivazioni correlate all’ordine pubblico.

In assenza di motivazioni specifiche e debitamente articolate, gli stati membri non possono né “chiudere i porti” né indirizzare le navi giunte nelle acque territoriali del SAR verso porti di altri stati.

Al netto di ogni valutazione etica, il quadro normativo che abbiamo sintetizzato, grazie anche all’intervento del dott. Spataro, non autorizza, ad avviso di Pickett, ogni singolo stato a “chiudere i porti” senza serie e motivate ragioni di ordine pubblico.

Su queste basi è auspicabile comunque una revisione degli accordi di Dublino in modo tale che i paesi naturalmente più colpiti dal fenomeno delle migrazioni (quelli costieri) non abbiano da sopportare un peso ingiustificato rispetto agli altri.

Il punto centrale resta comunque l’organizzare un sistema amministrativo che possa in tempi ragionevoli procedere ad una efficace ed efficiente identificazione dei migranti in modo tale da poter avviare i percorsi sia di accoglienza sia di restringimento previsti dalla legge. In Italia, gli attuali tempi biblici, costituiscono un “tappo” inammissibile sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani e civili dei naufraghi, sia dei cittadini che vivono nelle zone dove sono stati insediati gli HOTSPOT.

Su questo tema è necessario un investimento di risorse finanziarie e professionali che al di là di alcune promesse formulate dall’attuale Ministro degli Interni sono rimaste sulla carta e non si sono mai concretizzate.

Ripartiamo subito di lì in modo tale da dare un segnale di volontà politica e non di propaganda per gestire un problema complesso che caratterizzerà la cifra del prossimo decennio in tutta Europa.

 

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