Probabilmente non gli diamo troppo peso. Il tema viene saltuariamente sollevato ma poi abilmente rinchiuso nel cassetto. Meglio l’oblio che lo scatenamento di un dibattito dedicato, spinoso, difficile da gestire senza “effetti collaterali“.

Pickett allora prova a sollevare la coltre di “politicaly correct“ e prova ad alzare  il coperchio della pentola che ribolle per ragionare sulla questione.

Quale?

Eccola: noi viviamo in un mondo dominato da tre superpotenze Russia, Cina e USA ad alto deficit di democrazia e da quattro-cinque multinazionali americane, digitali, in grado di creare profitti tali da contaminare la politica degli Stati. Un oligopolio misto tra potere pubblico e privato in grado di decidere i destini del mondo su un tavolo apparecchiato per non più di sei-sette esseri umani in rappresentanza di tutti. I sette miliardi cioè di cittadini del mondo.

Partiamo da una considerazione storica e culturale. Tutti siamo stati educati a pensare che i destini del mondo siano nelle mani della politica degli Stati, e cioè delle classi dirigenti elette, in democrazia, dai cittadini per governare il paese ovvero autoproclamatesi “driver“ della nazione attraverso un regime più o meno manifestatamente dittatoriale. Sono dunque queste leadership, originate dal sistema democratico della rappresentanza oppure dall’auto-legittimazione acquisita spesso con la forza, ad occuparsi della politica e delle relazioni con le altre nazioni.

Nel suo divenire sussultorio ma sempre ascendente, l’umanità ha visto alternarsi al potere proprio quelle élite che avevano il mandato, o se lo erano preso, di gestire il potere per conto dei cittadini.

Oggi ci troviamo in una situazione formalmente simile ma sostanzialmente diversa. Molto diversa!

Nel mondo, la rivoluzione della globalizzazione del mercato ha creato uno scenario peculiare, probabilmente mai visto prima. La sfida mondiale è giocata da poche nazioni, normalmente dirette da modelli di governance efficienti ma non proprio democratici.

Russia e Cina ne sono la dimostrazione più lampante. Gli USA una declinazione più anomala: formalmente calati in un modello di democrazia liberale (Repubblica presidenziale) in realtà, e l’amministrazione Trump lo testimonia ampiamente, gli americani si sono dati un sistema di governance che apre la possibilità ad uno scenario con un presidente dotato di poteri assolutamente straordinari, eletto da una minoranza del popolo ma con un potere di governare le due camere del parlamento quasi a proprio piacimento. Con il famoso check and balance fortemente a rischio di sopravvivenza. Queste tre superpotenze, soprattutto le prime due, Russia e Cina, hanno una catena decisionale estremamente efficiente. Se il “capo“ dispone, i “soldatini“ eseguono all’istante. In termini competitivi, tra Stati, questa flessibilità ed efficacia del sistema ha un valore enorme. In pochi minuti si possono prendere decisioni che in altri modelli di governance sono impossibili. In un villaggio globale con tre o al massimo quattro giocatori (dell’Europa parleremo tra poco) avere, come in una tipica impresa privata, una catena di comando pronta, veloce ed efficace è un plus determinante.

Tutto il farraginoso modello democratico europeo ha, chi più chi meno, un tempo decisionale infinitamente più lento. Un valore competitivo decisionale assolutamente perdente rispetto ai tre colossi citati.

Già, ma dove la mettiamo, in questo ragionamento-analisi, la democrazia? Come è possibile coniugare efficienza con democrazia vera, sentita e voluta e articolata nella sua applicazione pratica?

L’Europa, aldilà dei suoi evidenti problemi di coesione e visione comune del futuro tra i suoi numerosi, forse troppo numerosi e diversi, partner, ha di fronte a se proprio questo genere di problemi prospettici.

Nata e sviluppatasi, aggiungiamo noi malamente, sul format delle democrazie liberali, oggi sconta un frullato di difficoltà micidiale: lentezza decisionale, divergenza di visioni strategiche, lontananza dai popoli, una governance basata sul consenso unanime, una crescita economica molto inferiore ai competitori internazionali.

Se dal punto di vista della politica, degli Stati, delle loro relazioni internazionali, il quadro, fosco per Pickett, fosse quello descritto, sul fronte privato dei poteri imprenditoriali, lo scenario, se possibile, è ancora più funesto.

La rivoluzione digitale e tecnologica ha dato vita ad un modello di oligopolio da manuale universitario. Google, Amazon, Facebook e la Apple oggi accumulano, in termini di creazione di valore e di profitti, una ricchezza superiore a molti Stati del pianeta. In più, valorizzando la mancanza di regole del gioco efficaci e uguali nel mondo, hanno acquisito una sterminata banca dati dei nostri profili che li mette nella condizione di contaminare le nostre scelte politiche e di consumo. Una concentrazione di potere mai vista prima con delle barriere di accesso per eventuali nuovi giocatori così alte e costose da scoraggiare anche i più intraprendenti “animali“ capitalisti del nuovo mondo. Un esempio classico dunque di posizione dominante con tutti i relativi abusi.

A differenza del passato, questo oligopolio pubblico e privato detiene leve decisionali mai viste prima, originate proprio dal mix micidiale composto da efficienza decisionale, accumulo di ricchezza, profonda conoscenza dei nostri gusti e comportamenti, straordinaria capacità di anticipare i nostri sogni, le nostre volontà, i nostri auspici.

Uno scenario terrorizzante che potrebbe ulteriormente aggravarsi con l’implementazione dell’intelligenza artificiale e quindi con l’aumento della popolazione dei robot sul pianeta.

Cosa fare?

Come reagire?

Cercando di seguire l’esempio e il monito del grande Bruno Segre, avvocato e giornalista, un centenario mai domo, dobbiamo “non arrenderci mai!“.

Facendo cosa? Aprendo cantieri di ragionamento e di proposta politica che mirino ad arginare il potere dei “pochi” stabilendo regole del gioco mondiali a difesa, da un lato, delle democrazie liberali che però devono necessariamente aggiornarsi come funzionamento operativo e, dall’altro, di un mercato aperto basato sulla concorrenza leale e sul merito e, soprattutto, con una redistribuzione della ricchezza più equa e solidale.

Pickett immagina, da una parte, una rivisitazione della governance pubblica che riesca a contemperare la fondamentale necessità di un continuo confronto parlamentare, prima di ogni decisione dell’esecutivo e sempre sotto il controllo giudiziario, con le opportunità offerte dalla rivoluzione del web; dall’altra parte, l’istituzione di un organismo sovranazionale con compiti di controllo e repressione contro ogni forma di concentrazione di potere che possa alterare l’equilibrio del mercato. Un’autorità mondiale che combatta i monopoli manifesti e soprattutto quelli occulti e li sanzioni pesantemente. Un modello già operante in molti stati ma che dovrebbe essere esteso a tutti, ad esempio, a tutti quelli che hanno un seggio all’Onu. Vuoi essere un membro delle Nazioni Unite ebbene, obbligatoriamente, devi aderire a questa Autorità sovranazionale Antitrust, accettando in toto le decisioni.

Insomma Pickett immagina un mondo in cui la globalizzazione sia vissuta non come una sfida-minaccia in cui l’unica perdente certa è la democrazia a vantaggio degli egoismi e delle avidità dei singoli, privati e pubblici che siano. Sogna un mondo in cui, grazie alla tecnologia e allo sviluppo delle scienze, si consolidi sempre di più una “voglia di stare insieme“ di tutti gli esseri umani che, sulla base di una più equa ridistribuzione della ricchezza, aiuti le leadership politiche di ogni paese del globo a modernizzare i loro processi decisionali, salvaguardando il confronto e l’alternanza delle maggioranze al potere, con delle authority sovranazionali che possano difendere la libertà di mercato e il libero commercio delle merci e dei servizi senza abusi derivanti da posizioni dominanti: da chi è stato più bravo o semplicemente solo più furbo.

Siamo alla vigilia di importanti scadenze elettorali, non sottovalutiamo questi problemi. Non mettiamoli sotto il tappeto, ignorandoli e sperando che così si possano risolvere da soli e miracolosamente.

Sta a noi dare dei segnali forti alle élite o a quelli che si candidano a diventarle perché inseriscano questi temi nell’agenda dei loro programmi elettorali o governativi.

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