Eccoci di nuovo tutti qui, felici che ritorna. Bisognosi, quasi angosciati di rimanere aggrappati ad una icona che significa bontà, pace, famiglia, serenità.

Si certo, parliamo del Natale! Di questa parola magica che da bambini ci fa sognare, da giovani sperare, da esseri umani maturi ci stimola le contraddizioni e un misto di tristezza, felicità, nostalgia e ricordi struggenti.

Nell’Italia rabbiosa e cattiva, fotografata dal rapporto del Censis 2018, cosa c’entra il Natale? Cosa ci azzecca?

Una recentissima indagine condotta dalla Coop con la collaborazione di Nomisma e denominata “il Natale che verrà“, ci risponde positivamente: c’entra eccome! Rappresenta la medicina. La festa più attesa.

Un farmaco-balsamo contro le ferite di un paese diviso, litigioso, impaurito dal futuro che lo aspetta.

“Un paese senza grandi passioni – scrive Albinio Russo responsabile dell’ufficio studi della Coop che con Nomisma ha realizzato la ricerca – ma che ha un grande bisogno di pace e di tranquillità. E al limite di un po’ di soldi, quelli che bastano per aiutare le spese della vita quotidiana.“

Una festa a cui rimaniamo attaccati come dei naufraghi all’ultima zattera. Un appuntamento che trasuda di tradizioni, di affetti, di ricordi, di nostalgia, di mancanze, di lutti, di dolori, di emozioni forti. Di una giostra di sentimenti semplici e istintivi vissuti da bambini che poi diventano più complessi, articolati, anche contraddittori nelle età più avanzate.

Il regalo più richiesto, ci ricorda il rapporto Coop-Nomisma, è proprio quello di una pausa buona, rilassante, distensiva: “I valori e i sentimenti – scrive ancora Russo – che non si possono comprare sono il dono in cima alla lista, indicato dal 35% degli intervistati. E anche trovare un lavoro è visto come un regalo.”

Si certo i regali sono il Natale. Con tutti i pregi e i difetti che si portano dentro. Da quelli obbligatori e non sentiti a quelli sentiti ma opulenti, inutili, quasi offensivi in un mondo di diseguali sempre più diviso tra ricchissimi e poveracci.

Compriamo di tutto, spesso con poco pensiero e tanto automatismo compulsivo. Il consumismo ci ha contaminato, trasformando una festa religiosa nel rischio di un’orgia pagana.

Nonostante tutto ciò “il dato più sorprendente risiede nell’aumento delle persone che dichiarano di voler spendere in regali più dello scorso anno – dice ancora Albinio Russo – il 33% contro il 28% del 2017. È vero che nello stesso tempo aumenta anche chi dichiara il contrario, che spenderà di meno, benché in percentuale minore, Il 23%, e con l’incremento minimo del 2%, ma il dettaglio di chi vuoi spendere di più e ancora più sorprendente. Sono soprattutto i Millennials e la Generazione X e in particolare i maschi e del Sud ad aprire i loro salvadanai: ovvero un inatteso segnale di ottimismo arriva proprio dei giovani meridionali.“

Siamo assediati dallo stress dei regali?

Il rapporto ci risponde di sì, ma ne siamo felici: “trovare un dono per tutti i parenti e gli amici può essere faticoso, eppure gli intervistati tagliano corto dichiarando a buona maggioranza, il 64%, di adorare il fare i regali a Natale e di non volerci affatto rinunciare.”

Un quadro idilliaco che, sotto la brace, cova però angosce, disillusioni, rabbie e rancori. Molti scrittori e giornalisti si sono esercitati in questi giorni a dare consigli vari sui menù, sull’addobbo dell’albero natalizio, sull’abbigliamento più indicato per le rituali feste collegate. Alcuni, pochi per la verità, si sono concentrati su un esercizio più delicato e molto conosciuto da tutti noi, protagonisti dei pranzi e delle cene natalizie: di cosa parlare a tavola? Su quali argomenti, esauriti quelli di rito sulla salute reciproca e sulle previsioni del tempo, innescare la discussione senza creare drammi, bisticci, confronti urlati e poco natalizi?

Siamo tutti consapevoli della spinosità intrinseca di riuscire ad individuare, in un consesso plurigenerazionale (di solito, come minimo, composto da tre diverse generazioni famigliari) degli argomenti interessanti per tutti ma che non scatenino risse o, quasi peggio, sbadigli e distrazioni.

Stefano Massini, su La Repubblica, si è addirittura cimentato a redigere un vero e proprio decalogo per la discussione ideale del pranzo-cena del 24-25 dicembre. Lo ha scritto con ironia, facendosi beffe di alcune mode vigenti nel nostro bizzarro e zoppicante paese.

Pickett vi riporta una sintesi dei 10 consigli del brillante sceneggiatore teatrale Italiano con una precisazione assolutamente personale ma molto importante: per dare un segnale virtuoso a tutti i presenti, perché, iniziando proprio da noi stessi, non ci togliamo “dal cinturone” per almeno qualche ora il nostro device, dedicando tutta la nostra attenzione ai presenti? Rimanendo, almeno una volta all’anno, disconnessi? Sarebbe un bell’esempio di rottura degli schemi abitudinari, liberandoci almeno per un giorno dalla schiavitù della tecnologia. Chissà, magari potrebbe innescare un trend virtuoso e alternativo a tutto vantaggio della nostra autonomia, del nostro equilibrio, della nostra indipendenza.

Ma torniamo a Massini e al suo decalogo ironico e provocatorio.

1) Sentitevi autorizzati ad evitare ogni farsa sentimentale, perché il minimo segnale di solidarietà potrebbe attirarvi addosso la qualifica immediata di bolscevico filomarxista, membro del complotto pluto-giudaico-massonico mondiale contro il cambiamento;

2) prendete esempio dai Trump, dagli Orban, dai Salvini, dai Bolsonaro smascherando qualsiasi racconto vetero-buonista con il massimo cinismo;

3) tenetevi lontano dal terreno minato di Betlemme e della famosa stalla perché li rischiate seriamente il linciaggio dai parenti ultras della neo-destra;

4) un suggerimento alimentare: in tempi di agguerrito sovranismo, guai a mostrarsi golosi di pietanze non autoctone, per cui – qualora vi fossero offerti – arricciate il naso con disappunto, decantando la bontà del made in Italy;

5) L’unica eccezione al consiglio di cui sopra, l’insalata russa che, viceversa, dovrete elogiare con slancio filo – Putiniano, incassando il plauso dei convitati;

6) evitate con cura qualsiasi richiamo a sortite carnevalesche tipo “mi vesto da Befana“ oppure ho noleggiato “un costume da babbo Natale“. Qualsiasi camuffamento potrà condurvi direttamente in questura;

7) sono da escludere gli inni natalizi in chiave gospel nonché i canti tradizionali di Ella Fitzgerald o di Louis Amstrong perché la generalizzazione dilagante vi vedrà subito come difensori dell’immigrazione;

8) ogni forma di politically correct è abolita: di conseguenza nessuno vi simulerà riconoscenza per regalucci da mercatino cinese o palesemente riciclati dall’anno prima;

9) in nessun caso, dichiaratevi simpatizzanti della sinistra, perché potrebbe esservi letale non tanto per le reazioni dei filogovernativi quanto per l’immediata guerriglia che opporrebbe cognati, nuore e cugini delle contrapposte anime del PD;

10) ultima e più importante regola: cancellate il motto “per Natale siamo tutti un po’ più buoni“ o potreste ritrovarvi al pronto soccorso con un occhio nero.

Due parole, infine, per chiudere queste poche righe incentrate sul Natale del terzo millennio, riguardano un libro arrivato da poco sugli scaffali delle librerie. Ci riferiamo a “Il presepio“ di Maurizio Bettini (Einaudi), un libro che esplora le origini di questo simbolo della cristianità.

Difficile, scrive l’autore, ritrovare la sceneggiatura originale: “I vangeli ci aiutano poco. Anzi, se per montare la Natività di cartapesta, che da bambini ci faceva sognare, dovessimo seguire le indicazioni evangeliche, potremmo anche rimettere tutto in soffitta e andare a fare shopping.”

“Per fortuna – continua l’autore – chi fa il presepe non pensa ai vangeli. In realtà qualcosa gli evangelisti ce la dicono, solo che la loro testimonianza è frammentaria, ai limiti della reticenza. Nel racconto di Matteo ci sono i Magi e la stella. Tutto il resto ci arriva da Luca, il più collaborativo in materia di indizi e circostanze. È lui a parlare della stalla, dell’angelo che da l’annuncio ai pastori e soprattutto della mangiatoia. È Luca che dispone davanti a noi un abbozzo di scenografia, con Giuseppe e Maria, la schiera angelica, le pecore e i loro custodi in preda allo stupore. Un particolare di estrema importanza quest’ultimo perché questa immobilità meravigliata e abbagliata in cui sono fissate le figurine, rappresenta il fermo immagine dell’incarnazione, l’attimo di sospensione cosmica del tempo che precipita nell’eternità. Ed è proprio questo precipizio, questo cortocircuito tra storia e teologia, a costituire il nucleo incandescente della recita presepiale.”

Per Bettini il presepe ”è in realtà il Vangelo in dialetto. È la buona novella che diventa immagine, prima ferma e dopo in movimento, poi sacra rappresentazione, successivamente teatro popolare e infine teatro e basta.”

L’autore ci accompagna nella ricerca delle origini di questa tradizione millenaria che fa risalire alle bamboline di terracotta che i romani donavano ai bambini nelle feste di dicembre chiamate sigillaria. O alle figurine dei lari, le divinità della casa e della famiglia.

Non è un caso quindi se in una casa su due, in Italia, troviamo un presepe, il fil rouge delle nostre vite, dei nostri ricordi, belli o brutti che siano.

L’icona affettuosa che ogni anno replica la sua importante e non archiviabile presenza.

Buon Natale a tutti.

Comments (1)
  1. dario (reply)

    24 Dicembre 2018 at 14:34

    Natale è l’inaudita pretesa di un uomo che si è detto Dio dicendo di se io sono la via la verità e la vita.
    Quindi la vera sfida del Natale non è sui buoni sentimenti ma sulla domanda di Dostoevskij : «La fede si riduce a questo problema angoscioso: un colto, un europeo del nostro tempo può credere, credere proprio alla divinità del figlio di Dio Gesù Cristo?».
    Buon Natale
    Dario

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.