La protesta dei pastori sardi ha rilanciato un problema relativamente antico. L’impossibilità di produrre degli alimenti “di qualità” a fronte di prezzi di vendita sempre più ridotti e non remunerativi. Una pecora, oggi, costa 0,60 centesimi al giorno e il suo latte non può essere quindi venduto a 0,30 centesimi al litro, al 50% cioè del costo di mantenimento dell’animale.

Di qui la protesta, il blocco della produzione, le manifestazioni di piazza che rischiano di far scomparire dal mercato un’altra delle chicche di qualità della tradizione italiana: il pecorino sardo.

Si sta trattando, con l’intervento del governo e delle associazioni sindacali, un rialzo di quei 0,30 centesimi e probabilmente si troverà un accordo ecumenico che però non risolverà il tema di fondo ma eviterà, sul breve, la degenerazione della situazione.

La questione di fondo rimane aperta e sul tavolo. Riguarda altre produzioni di nicchie della nostra straordinaria varietà di cibo italiano. La Grande Distribuzione Organizzata (GDO) forte del suo potere negoziale di potersi candidare all’acquisto di grandi volumi di prodotto, offre prezzi sempre più ridotti, risicati, addirittura, come nel caso del percorino sardo, sotto costo di produzione. In un’economia di mercato si potrebbe archiviare superficialmente la questione, come qualcuno tenta di fare, sostenendo che il punto di equilibrio tra domanda e offerta di beni detta le regole del gioco. Dunque non c’è da stupirsi che emergano criticità di questo genere… è il mercato… bellezza!

Pickett ritiene che la tematica abbia contorni e contenuti diversi e vada affrontata con criteri di lettura e di prospettazione di soluzioni “anche” diverse.

I consumatori (Noi, quindi) che desiderano mantenere in vita produzioni di alimenti di qualità, che tutto il mondo ci invidia e… ci copia, devono essere disponibili a pagare un prezzo diverso, più alto e remunerativo di quello che il puro mercato libero offre.

Solo così, Noi consumatori, potremo pretendere che il modello di business del settore agroalimentare non degeneri nella distruzione delle produzioni di certi prodotti, o peggio, come sta accadendo, nel caporalato e nell’ingresso nella filiera di questa industria di mafie che governano il mercato della mano d’opera e delle aziende in crisi e con l’acqua alla gola.

Solo così, Noi consumatori, potremo pretendere che la GDO avendo margini superiori sulla vendita di quei prodotti, offra prezzi di acquisto più adeguati ai singoli produttori locali della materia prima, “a monte” della produzione del prodotto a rischio di scomparsa dagli scaffali dei supermercati.

Il ragionamento, se condiviso, è applicabile a diversi altri prodotti destinati, al contrario, a uscire dal mercato.

I pastori sardi non sono, infatti, gli unici penalizzati, costretti a lavorare in perdita. I produttori di clementine, per risparmiare, hanno lasciato la frutta sugli alberi. Chi fa riso fatica a quadrare i conti. Anche nei frantoi della filiera dell’olio la situazione non è migliore. Tra potatura e trattamenti il costo della produzione nel 2018 è aumentato in maniera rilevante e il raccolto è stato inferiore del 90%. La produzione di olive, tra maltempo e Xylella è crollata nel 2018 del 57% e i prezzi sono aumentati di almeno 1/3. Gli scaffali dei supermercati sono pieni di olio d’importazione venduto a prezzi inferiori a quelli che si trovano sul mercato all’ingrosso. Com’è possibile? Gli addetti ai lavori spiegano che il prodotto arriva dalla Spagna a 3 euro al chilo e attraverso una etichettatura ai limiti della illegalità viene venduto come una miscela di oli comunitari e non comunitari.

Nell’estate del 2017 la sovrapproduzione ha messo ko anche le pesche nettarine, mentre l’invasione del riso a basso prezzo proveniente dall’Oriente ha fatto crollare il valore di quello nostrano che ha perso il 50% della superficie coltivata.

Quello che questi episodi ci raccontano – ha scritto recentemente Carlo Petrini, il guru dello Slow Food – è un sistema alimentare che sacrifica il benessere di chi produce trasformando la materia prima in commodity e comprimendo sempre di più i margini di guadagno per il settore primario. Quello a cui stiamo assistendo, se non si cambia rotta, potrebbe essere l’inizio di un “68 dei contadini”, la cui voce non deve più essere ignorata. Contadini che oggi chiedono di emanciparsi da un modello di mercato in cui a guadagnare sono solo i grandi agglomerati industriali che trasformano la materia prima, la distribuiscono o fanno le due cose insieme”.

Petrini è anche fortemente critico sulle soluzioni “tampone” come quella che si sta raggiungendo per il latte di pecora in Sardegna.

Si tratta di misure che alla lunga non fanno altro che perpetrare la situazione iniziale. Non solo, ma i sussidi sono fatti di soldi pubblici e cioè di denaro dei cittadini. È  chiaro allora che, se da una parte abbiamo l’impressione di pagare poco il cibo al supermercato, dall’altra parte paghiamo i sussidi necessari alla sopravvivenza di comparti schiacciati da quella stessa grande distribuzione. La contraddizione c’è ed è pesante”.

Che fare dunque? Quali soluzioni si possono prospettare per interrompere questo micidiale circuito che sta annientando una gran parte di qualità della filiera alimentare del nostro paese?

Tre possono essere i primi approcci per arginare il fenomeno e svoltare in senso virtuoso.

La biodiversità: la valorizzazione cioè delle differenze territoriali e tradizionali. “In ogni angolo del nostro paese – ha scritto ancora Petrini – troviamo specie autoctone, razze ancestrali, varietà uniche che si sono adattate al territorio e che danno vita ad eccellenze irripetibili che possono generare giusto reddito se conosciute e promosse”.

La multifunzionalità: è sbagliato ormai concentrarsi esclusivamente su un prodotto perché si rischia di essere in scacco rispetto alle dinamiche perverse del mercato, dipendendo da speculazioni su cui non si ha la possibilità di avere alcun controllo. L’impresa multifunzionale costituisce il futuro, una speranza di uscire dall’”angolo”. Multifunzionale significa avere un’azienda che coltiva prodotti differenti, usa le deiezioni dei propri animali come fertilizzanti per i campi in cui coltiva il fieno o il grano. Un’azienda che diventa fattoria didattica la domenica e punto di vendita diretto in settimana magari anche con l’offerta di ospitalità agrituristica.

L’integrazione della filiera: chi riesce a trasformarsi in casa il proprio prodotto ha maggiori margini di guadagno oltre che maggiore soddisfazione e riconoscibilità sul mercato. Stesso ragionamento vale per gli addetti ai lavori che riescano a praticare un’agricoltura circolare e integrata.

Solo in questo modo, secondo Petrini ma anche secondo molte delle associazioni di questa industria, si potrà impostare una strategia che protegga le nostre filiere agroalimentari offrendo anche un futuro promettente e sostenibile per i giovani.

Le tre parole chiave di questa strategia dovranno dunque essere Biodiversità, Multifunzionalità e Integrazione.

È ovvio che sarà molto importante il ruolo delle istituzioni e della politica. È necessario rivisitare il quadro normativo individuando misure che possano aiutare queste riconversioni da un modello economico destinato a scomparire ad un modello più moderno, innovativo in grado di competere anche nella complessità del villaggio globale.

 

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