Nella confusione che ci circonda e nell’ansia di constatare un “deserto“ di idee visionarie che ci permettano di uscire da una situazione ad alto rischio di coesione sociale e umana, Pickett si è costruito faticosamente due convinzioni. Dichiarazione forte, questa, quasi arrogante in un contesto difficile. Necessaria però per ripartire da “qualcosa“.

La prima riguarda il concetto di sicurezza e la seconda di diversità.

Ve le riassumo per poi ragionarci sopra insieme.

Abbiamo, tutti, non solo i nostri governanti italiani ed europei, sottostimato il valore attribuito dalla Gente alla sicurezza: parlo di quella fisica, di quella psicologica, di quella economica, di quella familiare. Se questo principio fondante per le nostre esistenze va in crisi per ragioni diverse, gli esseri umani perdono di lucidità, diventano ansiogeni, tirano fuori il peggio dell’originario istinto belluino.
Iniziano a chiudersi nel proprio “laghetto“, alzano muri, rompono rapporti, cercano di proteggersi da soli visto che l’istituzione delegata non se ne è occupata, lasciandoci soli a gestire il “mostro”. Subentra allora la paura che può diventare terrore: irrazionale, ingestibile, bisognoso di soluzioni a qualunque costo. Scatta, in quel momento, un istinto primordiale, a volte quasi non pensato e voluto ma sentito epidermicamente: se nella mia comunità c’è un mio simile che “si fa carico“ del problema, che dice “basta“ a prescindere dal “come“, che sa interpretare il mio stomaco sopraffatto dall’angoscia e dalla paura per me, per la mia famiglia, per il mio lavoro, per il mio futuro… allora… allora, anche se, in fondo, non mi piace né per quello che dice, né per come lo dice; anche se sono consapevole che il suo progetto, alla lunga, non porterà a nulla, devastando la nostra convivenza e sdoganando il peggio che abbiamo dentro quando siamo impauriti o arrabbiati; anche se sono costretto a turarmi naso e bocca per votarlo… Beh, lo voto, lo applaudo, gli sono grato di occuparsi finalmente della mia insicurezza. Lo delego a rappresentarmi. Non sto troppo a sofisticare se ha modalità inaccettabili, se non rispetta il protocollo istituzionale, se non parla “forbito” ma “straparla” come me. Se incita all’odio e alla violenza.

Ci voleva qualcuno che, finalmente, battesse i pugni sul tavolo e si occupasse delle nostre insicurezze quotidiane. Un uomo che, per un periodo transitorio, rimettesse la nostra sicurezza in cima alla lista delle priorità da risolvere.
Ed è proprio su quell’incidentale che sintetizza la transitorietà di questo bisogno che sta il problema. La storia ci insegna che “l’uomo-taxi“ che ci traghetta dalla paura alla ritrovata sicurezza… sempre che ci riesca… poi non si accontenta del pagamento del prezzo per la tratta. Tende a convincersi di essere il leader giusto anche per il periodo successivo, magari, proprio perché ha conosciuto meglio i suoi “transitori” elettori. E allora il film prevede, perché lo scenario è già scritto, l’irrigidimento delle regole e lo svuotamento graduale del contenuto dei tanti diritti considerati ormai acquisiti e, invece, in via di estinzione.

In sintesi, stiamo pagando un errore politico e antropologico gravissimo. Forse, non scusabile: l’aver sottostimato la sicurezza dei cittadini sul presupposto di una accoglienza velleitaria che potesse prescindere dalle conseguenze sociali che avrebbe oggettivamente creato.
Per ripartire ed evitare il rischio del “uomo-taxi“ del destino dobbiamo porci il tema di ridare sicurezza alla gente pur in un contesto sociale ed economico imbarbarito. Bisogna riuscire a coniugare sicurezza con accoglienza ma con questo rigoroso ordine di priorità.

Tutto il resto è propaganda o velleitarismo!

La seconda convinzione, sulla diversità, mi deriva dall’aver ascoltato e letto molti degli interventi succedutisi domenica scorsa ad Assisi, in occasione dell’evento denominato “il cortile di Francesco“. Si parlava delle differenze tra esseri umani come valore, non come disvalore e rischio di conflitti. “Love Difference” è stato il titolo di una delle sezioni a cui ha partecipato monsignor Gianfranco Ravasi, autorevole biblista e teologo della Santa Sede, Cardinale e presidente del Pontificio collegio della Cultura.
Monsignor Ravasi ha iniziato la sua lectio citando un grande europeista tedesco, Konrad Adenauer (1876-1967) che diceva: “Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non tutti abbiamo lo stesso orizzonte”.

Quella di Adenauer, secondo Ravasi, è una considerazione che intreccia due coordinate: “l’una verticale ed è l’unità “celeste” del genere umano: in tutti noi corre la stessa linfa e abbiamo il medesimo tessuto “adamico”, siamo creature umane basilarmente uguali. L’altro asse è orizzontale si sfrangia in mille prospettive, rivelando così la pluralità e quindi le differenze. C’è una suggestiva metafora rabbinica che afferma: Dio ha fatto tutti gli uomini con lo stesso conio ma, a differenza delle monete che risultano uguali, le creature umane sono tutte diverse (si pensi solo alle impronte digitali). Unica è la dignità, ossia l’appartenenza all’essere umano, infinita è la pluralità dei volti, delle anime, dei pensieri”.

Per Monsignor Ravasi le differenze tra gli uomini rappresentano la pienezza dell’umanità stessa. Il dialogo, il confronto tra diversi è proprio il “sale della vita”. Citando Karl Popper, Ravasi ha sottolineato come “non si deve credere all’opinione diffusa che, allo scopo di rendere feconda una discussione, coloro che vi partecipano debbano avere molto in comune. Anzi, più diverso è il loro retroterra, più feconda sarà la discussione. Non c’è nemmeno bisogno di un linguaggio comune per iniziare: se non ci fosse stata la torre di Babele, avremmo dovuto costruirne una”.
Pickett è stato colpito in particolare da un passaggio del suo intervento. Quando Ravasi ci ha preso per mano e ci ha portato a rileggere il capitolo 11 della Genesi: “il sogno dell’imperialismo di Babilonia – ha detto Ravasi – era quello di imporre un “unico labbro”, come si dice nell’originale ebraico della Genesi, cioè una sola lingua, una sola cultura, una sola concezione della vita, precettata a tutti. È ciò che sta alla radice anche del razzismo e della xenofobia che purtroppo sta riaffacciandosi col suo volto aggressivo nei social, nei vari populismi attuali e perfino nel nostro paese segnato da una civiltà dialogica così alta”.
Contro questa deriva e questo rischio di ripiombare, quasi senza accorgercene, negli anni bui del razzismo (tra l’altro, in questi giorni, viene ricordato l’infausto anniversario degli ottant’anni dall’entrata in vigore delle leggi razziali) la ricetta di Ravasi è costituita dalla rivalutazione delle differenze, come motore della conoscenza, della crescita, della coesione sociale. “Contro questa arroganza che disprezza l’altro, condannata da Dio, è necessario tutelare la ricchezza dei colori dell’arcobaleno delle culture e delle etnie volute dal Creatore. Uno degli antichi maestri degli ebrei mitteleuropei detti Chassidim, cioè “pii”, affermava: “In ogni uomo c’è qualcosa di prezioso che non si trova in nessun altro. Si deve perciò rispettare ognuno secondo le virtù che egli solo possiede e che non ha nessun altro”.

Forse ridando da un lato priorità alla risoluzione pacifica e regolamentata delle nostre insicurezze e dall’altro costruendo una cultura che faccia delle differenze un valore supremo, potremmo rivedere la luce e sconfiggere le semplificazioni del presentismo e i rischi del “uomo solo al comando”.

 

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