Pickett ha  già sfiorato l’argomento. Forse con riserbo e timidezza ma anche con il coraggio di voler parlare di certi sentimenti, di certi gesti significativi, di certi comportamenti stimolanti. In un contesto pubblico preoccupante, dove lo “stare insieme“ diventa sempre più difficile, i comportamenti privati, gli esempi che ciascuno di noi può dare, diventano ancora più importanti.

A volte decisivi per invertire derive collettive apparentemente inarrestabili. Abbiamo parlato in questo blog di carezze, di incontri, di emozioni, di azioni “belle e alte“. Mai, per ora, di Felicità.

Parola forte. Quasi intimidente. A volte sicuramente abusata o utilizzata fuori luogo, fuori tempo.

Massimo Gramellini con il suo “il caffè“, sul Corriere della Sera, ci richiama all’ordine. Ci costringe a fermarci un attimo, ad utilizzare il nostro tempo a disposizione per l’approfondimento di un sentimento privato, molto delicato ma fondamentale per la qualità delle nostre vite.

La lettura del suo contributo sul quotidiano milanese ci obbliga ad una riflessione. Per chi se lo fosse perso, lo riportiamo integralmente qui di seguito, aggiungendoci prima alcune nostre ulteriori considerazioni personali.

L’equazione felicità = ricchezza e fama, non tiene.

Rappresenta sicuramente una parte della realtà ma non la sua interezza. Ad alcuni, ne siamo certi, apparentemente basterebbe ma sarebbe arida, momentanea, senza il calore del contributo del cuore.

Pickett è consapevole (e grazie a Gramellini, oggi, lo ha anche razionalizzato) del valore della Felicità alimentata proprio dalla qualità degli incontri umani. Dalla “buona” relazione con gli altri. Dalla qualità dei rapporti con i nostri simili.

“Soltanto quella“ certifica la ricerca dell’Università di Harvard citata da Gramellini, può davvero migliorare la nostra vita. “La solitudine e le frequentazioni sbagliate atrofizzano il cuore, peggiorano la salute, fanno arrugginire il cervello“.

È vero dunque che un “pezzo” della nostra Felicità risieda nel sapere dominare e appagare il nostro demone, il nostro carattere, il nostro DNA. Il talento unico ed esclusivo che ci viene attribuito quando veniamo al mondo.

Ma… Ma non basta!

Gramellini, richiamando il teorema di Waldinger, rivaluta un altro “pezzo” decisivo per farci provare l’emozione irripetibile ed esclusiva di essere felici: la qualità delle nostre relazioni umane.

Non siamo probabilmente portati a considerare l’importanza fondamentale  di avere degli amici veri; dei rapporti leali, franchi, magari anche rudi ma veri, con altri esseri umani.

Diamo per scontata la circostanza. La sottostimiamo, salvo rendercene conto quando la perdiamo, la distruggiamo, non l’abbiamo più.

Allora il nostro tasso di qualità della vita diminuisce. Perde un “pezzo”. Zoppica. Pensiamo di farcela lo stesso ma in realtà ci manca la completezza del sentimento.

E allora, cari amici…. viva Albano e Romina e il “tenerci  per mano”, appena possiamo, diventi davvero l’icona della Felicità, il simbolo dell’importanza di esserci, insieme, nella piena consapevolezza della solennità del nostro incontro, anche fisico.

Il “tenerci per mano“ come sintesi fisica ed emotiva del sentire di voler affrontare la vita, anche magari per un solo tratto, insieme. Ascoltandoci, condividendola, vivendo insieme fasi positive e negative.

Grazie Massimo, grazie Albano, grazie Romina, di averci costretto a tornarci sopra. Ne valeva la pena.

Ora siamo tutti più consapevoli della fortuna-felicità che abbiamo e che non sempre apprezziamo nella giusta e meritata misura. Ora leggetevi Gramellini.

Buone emozioni……

Ho chiesto a un amico dell’Inter di immaginare la felicità. Ha risposto: «Cristiano Ronaldo che sbaglia il rigore decisivo nella finale di Champions». Gli ho replicato che la felicità di cui si occupa quest’anno il Tempo delle Donne è uno stato d’animo duraturo e costante. E neanche un rigore sbagliato da CR7 nella finale di Champions può renderti felice per tutta la vita. Lui, perplesso: «Chi te l’ha detto?» Epicuro. Me lo ha detto Epicuro. E lui, sempre più perplesso: «Mah, sarà juventino».

C’è stato un tempo infelice in cui anch’io collezionavo definizioni sulla felicità. Da Epicuro a Seneca — gli «influencer» del mondo classico — fino a Oscar Wilde, nessun fabbricante di sentenze memorabili veniva risparmiato. Foglietti e foglietti gravidi di citazioni. Ne avevo le tasche talmente piene che a un certo punto ho cominciato a svuotarle. «La felicità è accontentarsi di quello che si ha» lo gettai nella pattumiera durante una giornata di particolare ingratitudine in cui mi sembrava di non avere più nulla. Invece «la felicità non è il traguardo, ma la strada per raggiungerlo» lo accartocciai sul cruscotto dell’auto durante un ingorgo al casello di Imperia. A furia di alleggerirmi, di foglietti in tasca me ne sono rimasti soltanto due. Li hanno scritti James Hillman, psicanalista junghiano, e Albano Carrisi, cantante pugliese.

Per Hillman la felicità consiste nell’appagare il proprio «demone», cioè il proprio carattere, l’imprinting, il talento unico e irripetibile che viene consegnato a ciascuno di noi al momento della nascita. Purtroppo — lo spiega uno dei miti più intriganti di Platone — un attimo prima di incarnarsi, l’anima beve l’acqua del fiume della Dimenticanza e piomba nel mondo materiale senza ricordarsi che cosa ci è venuta a fare: scrivere poesie, amare i cani, giocare in Borsa o cucinare spaghetti al pomodoro? Se nel corso del tempo riuscirà a scoprirlo e a seguirne il richiamo, si sentirà felice, altrimenti condurrà una vita inutile. Non per niente in greco antico Felicità si dice Eudaimonia: fare stare bene il proprio demone.

La definizione di felicità di Al Bano è racchiusa nella canzone omonima e risulta meno centrata sull’individuo rispetto a quella di Hillman. Per lui e Romina Power la felicità «è tenersi per mano» (è anche «un bicchiere di vino con un panino», però non ci allarghiamo). Tenersi per mano. Vegani e carnivori, sovranisti e globalisti, bianchi e neri, o al verde. Chiunque abbia mani da tenere, o da cui fare tenere la propria, è considerato una persona felice. Mentre chi ne è sprovvisto brancola nella tristezza. Vi sembra un’affermazione banale e buonista? Lo pensavo anch’io. Fino a quando non mi sono imbattuto nel discorso sulla felicità di Robert Waldinger. Lo trovate su Internet, con i sottotitoli o anche senza, per chi non sa l’italiano.

Il professor Waldinger lavora a Harvard ed è il quarto direttore di una ricerca unica al mondo, non fosse altro perché dura ininterrottamente dal 1938. Ottant’anni fa, il primo predecessore di Waldinger scelse 724 ragazzini di ogni ceto e classe sociale. E cominciò a tenerli d’occhio anno dopo anno, sottoponendoli a interviste, questionari, esami clinici e sedute psicologiche per scoprire che cosa li rendeva più o meno felici. 724 persone — ricche e povere, famose e anonime, cadute nella polvere o salite fino alle stelle — sono state analizzate per tutta la durata della loro vita. Altre celebri ricerche sulla felicità hanno chiesto agli anziani di ripercorrere il proprio passato, ma la memoria è selettiva e nostalgica, tende a imbellettare i ricordi e a rimuovere i traumi. Invece seguire un’esistenza in tempo reale garantisce risultati molto più oggettivi.

Ebbene, quale verità si è dipanata sotto gli occhi dei ricercatori di Harvard? Che a rendere felici gli esseri umani non sono né la ricchezza né la fama, i feticci della modernità. È la qualità delle loro relazioni. Soltanto quella. La solitudine e le frequentazioni sbagliate atrofizzano il cuore, peggiorano la salute e fanno arrugginire precocemente il cervello. Chi a cinquant’anni si comportava da orso o da animale in gabbia, e magari era un manager di successo in perfetta forma fisica, è invecchiato male oppure è morto. Mentre chi già allora coltivava buone relazioni con la famiglia, gli amici e la propria comunità è diventato un vegliardo felice, vispo e in salute, anche se aveva il colesterolo alto.

Il calore umano sarebbe dunque l’elisir di lunga e felice vita che l’uomo cerca da millenni senza sapere di averlo sotto il naso. Ovviamente non basta circondarsi di legami: si può essere soli anche in una folla o in un matrimonio sbagliato. Perché quei legami si scaldino e diventino affetti occorre investirci lo stesso tempo e le stesse energie che normalmente vengono dedicate a procacciarsi fama e ricchezza (quasi sempre senza riuscirci, oltretutto).

Harvard dà ragione ad Al Bano e un po’ anche al mio amico interista. La felicità consiste nel seguire il proprio «damon», ma ancora di più nel tenersi per mano mentre Cristiano Ronaldo tira il rigore.

Fonte: https://www.corriere.it/caffe-gramellini/18_settembre_06/felicita-tenersi-mano-d5a296b0-b208-11e8-b837-d3ad6d664b0d.shtml

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