Non è la prima volta. E non sarà probabilmente neanche l’ultima. Auspico però che sia letta e interpretata nel modo giusto per le cose che si raccontano non per i protagonisti e la loro possibile autoreferenzialità. Pickett ha già in passato socializzato delle emozioni private. Lo ha fatto per ragionare insieme su sensazioni, emozioni, sentimenti che dovrebbero essere fattore comune in una comunità di umani che non si limita a parlare o a scrivere ma a fare. Su questo razionale, mi auguro condiviso, mi permetto di raccontarvi due episodi di un “sabato qualunque… di un sabato torinese” per richiamare una famosa canzone di qualche anno fa! A voi trarre le riflessioni, le critiche, le condivisioni che riterrete opportune e doverose.

Dunque … Torino, Murazzi intorno al Po. La solita camminata salutistica per ossigenarci, passeggiare tra la gente, staccare la spina per qualche ora. Dopo tanto buio, pioggia e freddo, una giornata di sole quasi estivo. 30 gradi, tutti fuori a goderci i primi, meritati, scampoli di una primavera-estate tanto agognata. Arriviamo al ponte di Corso Gabetti, all’ora di pranzo. Poca gente in giro, un caldo afoso, dalle finestre delle case le voci di famiglie riunite a consumare insieme il pasto del giorno di vacanza. Ai piedi della ripida scalinata che sale a Lungo Po Antonelli, sull’ultimo gradino vicino al fiume è seduto un vecchietto con un bastone. Ha una postura stanca. Una espressione triste, quasi dolorosa. Bofonchia parole sconnesse tra sé e sé con uno sguardo perso nel vuoto e rivolto verso le acque impetuose del nostro Po. Passandogli di fianco lo salutiamo quasi spinti dal volerlo per sentire meno solo. “Buon sabato, tutto bene?”. Ci scappa una frase stupida ma velata da una voglia istintiva di partecipazione. Di attenzione al suo “dramma”. Senza conoscerlo, senza sapere nulla di lui e della sua tragedia in essere. Gira il viso verso di noi richiamato alla realtà dalla nostra stupida e sorprendente domanda. La sua esistenza è tragicamente addolorata. Ci chiede subito, con voce angosciata e tentennante: “È profondo il fiume qui?”. Ci scatta un allarme interno. Una voce ci grida di non andare oltre. Di non fare finta di niente. Ci fermiamo e iniziamo un botta e risposta a “spizzichi e bocconi”. Perché quella domanda? Perché quel dubbio? Perché quella socializzazione di una voglia repressa di sapere se quel fiume in piena che scorre di fianco a noi … potrebbe accoglierlo. Ci rendiamo conto che, nella sconclusionata serie di affermazioni spezzettate, dette con fatica e dolore, si nasconda un desiderio, una voglia di farla finita, di chiudere un incubo che lo perseguita e lo costringe a dei pensieri tragici, angoscianti, di buttarsi nel Po. “L’acqua è alta?” continua a ripetere il vecchietto sperando quasi che la risposta sia “Sì, è profonda … vai tranquillo”. La sosta istintiva diventa una pausa di attenzioni razionale. Un motto dello spirito che ci invita a dargli una mano, a regalargli del nostro tempo per ridargli fiducia, una visione positiva che gli permetta di allontanare i fantasmi portatori dell’idea di dire irreversibilmente “basta!”.

Ancora in modo goffo proviamo a proporgli di accettare dei soldi, quasi potessero rappresentare un farmaco alla sua disperazione. Li rifiuta con grande dignità, dicendoci che il tema è più grande, più complesso, più difficile da superare. Un momento di depressione assoluta che lo spinge a dire Basta e a buttarsi nel fiume. Ci sediamo con Lui e cerchiamo di farlo parlare. Di raccontarci perché sia giunto a quel pensiero di autodistruzione. Ci ritornano parole confuse in cui vengono mischiate la malattia della moglie inferma, una sua oscura forma di infiammazione dermatologica che non lo fa dormire e gli provoca sofferenze importanti. Una ossessione che neanche gli specialisti che lo hanno visitato è riuscita ad arginare. Il buio insomma che contrasta con la meravigliosa giornata di sole ma che lo attanaglia e lo fa chiudere in sé stesso. Nella tragica ma ormai inevitabile voglia di andarcene per sempre. Per fortuna per lui e per noi viene fuori l’esistenza di una famiglia, di due adorate figlie, di generi attenti alle sue condizioni fisiche. Spunti su cui investire per farlo retrocedere dai suoi brutti pensieri. A poco a poco, Francesco (si chiama proprio così: come il nostro Papa!) inizia a darci retta. Il focus non è più sulla profondità del letto del fiume ma sulla sua attuale drammatica quotidianità. Sul suo dolore fisico e psicologico che nessuno sembra in grado di lenire.

Francesco è vestito bene (troppo però: con una bella felpa grigia che “fa a pugni” con il caldo afoso della giornata). Ha una maschera di sofferenza che nasconde male una espressione seria, profonda, di persona per bene inghiottita in un tunnel di pessimismo ingestibile. Intuiamo che saranno ore che è lì, fermo e seduto sul gradino a scrutare il fiume con il sole che gli picchia addosso disidratandolo. Recuperiamo delle bottiglie d’acqua e un cappuccino. Accetta di dividerle con noi. Un piccolo forellino nella diga dell’autodistruzione si è creato e ora la strada per riportarlo a casa sembra meno in salita. Lo aiutiamo a risalire le scale proponendogli una sosta in un bar dove avremmo poi deciso insieme cosa fare. Resiste ancora ma intanto si fa accompagnare sulla via del ritorno, non solo fisico ma psicologico. Reidratato e con qualche energia in più, siede con noi in un dehors di un bar di Corso Tortona. Lamenta la sfortuna del suo momento ma lo fa in modo diverso, meno auto distruttivo. Dopo uno sguardo di complicità istintiva, decidiamo di rompere il ghiaccio: lo riporteremo a casa dalla sua famiglia. Francesco vuole pagare il conto della consumazione. Ci dice di essere uscito presto la mattina e di avere preso un pullman verso il Po. Di essere arrivato lì, al ponte di Corso Gabetti, di aver sceso le scale e di essersi seduto vicino al fiume pronto a farla finita. “È la prima volta che mi succedemi dispiace ammetterlo … ma non ce la faccio più”. A domanda, ci esibisce la carta di identità. Ha quasi 92 anni (ne dimostra molti meno) e ora sappiamo anche l’indirizzo dove abita.

Con un taxi, lo convinciamo a seguirci. A girare pagina, a tornare dai suoi affetti più cari. In auto, seduto dietro con Pickett, dopo una carezza di puro affetto amicale, mi stringe la mano e non me la lascerà più fino a destinazione. Quando arriviamo al suo domicilio, mentre tentiamo di citofonare al cognome risultante dalla carta di identità, ci aprono il portone due donne e un uomo. “Chi cercate?” alla nostra affermazione “La famiglia di Francesco” ci rispondono quasi con un urlo collerico “Dov’è?”. “In taxi, sta scendendo dal taxi per ritornare a casa”. Le due donne sono le figlie, l’uomo il genero. Scoppiano a piangere rivedendolo vivo e vegeto farsi loro incontro. Stavano per andare a denunciare la scomparsa dai carabinieri. Erano ore che lo cercavano invano. “Da due settimane – ci ha raccontato il genero – era caduto in una forte forma di depressione. In più questa dolorosa irritazione alla pelle lo aveva distrutto. Era silenzioso, di cattivo umore, quasi rabbioso con tutti e soprattutto con la vita che lo costringeva a questa sofferenza”.

Abbiamo rivisto il sorriso sul viso di Francesco e la gioia su quello dei famigliari.

Ce ne siamo tornati a casa commossi, emozionati dal constatare che un piccolo gesto di attenzione aveva innescato un grande recupero di un essere umano. Tutto qui!

Un banale esempio che ci dovrebbe far riflettere su quante responsabilità abbiamo sulle spalle “noi fortunati”, per aiutare, attraverso i più diversi comportamenti, i “meno fortunati” di noi.

Fare del bene (ci insegna il nostro grande e insostituibile amico Don Andrea Bonsignori) aiuta gli altri ma fa bene soprattutto a noi stessi, a rimettere in ordine le priorità, a rileggere con più lucidità quelli che ci sembrano problemi irrisolvibili e che in realtà non lo sono.

La sera, di questo “sabato qualunque …” siamo andati a vedere il film “Hostile” un western ambientato negli Stati Uniti nel 1890, alla fine della guerra indiana. La storia, in sintesi, ci grida come dei presunti “nemici” possano, conoscendogli meglio, arrivare a forme di solidarietà inimmaginabili. Protagonisti di violenze inaudite che, incontrandosi e volendosi confrontare sul serio “dentro” smussano prima le differenze e diventano poi esseri umani pronti a darsi una mano, ad aiutare i più deboli, a porre fine a razzismi nati da pregiudizi di non conoscenza e di non attenzione.

Cosa c’entra l’episodio di Francesco con la parabola del film? C’entra, cari amici, c’entra eccome.

Grazie Francesco per la “forte” occasione che ci hai dato di confermarci l’importanza di avere più attenzione verso gli altri, anche diversi da noi e magari anche ostili nei nostri confronti.

P.S. Sul tema della carezza, del suo significato, del cosa rappresenta per chi la dà e per chi la riceve, ci ritorneremo presto su questo Blog ricordando non solo Adriano Celentano ma anche il nostro Papa Giovanni quando dalla finestra di Piazza San Pietro, durante il suo Pontificato, al termine del suo colloquio settimanale con i fedeli accorsi disse “E quando ritornerete a casa date una carezza ai vostri figli e dite loro che è la carezza del Papa”.

Comments (3)
  1. Maurizio Baiotti (reply)

    23 Aprile 2018 at 12:09

    Il Don è stato insignito del Premio Caccia, in effetti lo è stata la scuola che lui dirige.

  2. dario (reply)

    23 Aprile 2018 at 13:25

    Grazie Pickett

  3. Letiziai (reply)

    23 Aprile 2018 at 17:45

    Un’esperIenza che è uno di quei doni che qualche volta la vita offre e che solo una persona “di cuore” sa come viverla con generosità e amore. Grazie Letizia i

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