Come siamo diventati noi italiani, sul finire di questa torrida estate 2017 e alla vigilia di una stagione di scelte politiche, nazionali ed europee, probabilmente decisive per le sorti del nostro Paese negli anni a venire?

Pickett ha provato a incrociare i risultati di una serie di recentissime indagini dei più autorevoli istituti di ricerca che istituzionalmente ogni anno ci danno il polso e la fotografia delle nostre tendenze, abitudini, costumi, angosce e speranze. Rispetto alle tradizionali macchiette degli stereotipi tipici conosciuti (Italiani “brava gente”; furbastri e creativi; sudditi e individualisti; generosi ma con poco senso dello Stato etc. etc. etc.) emerge un quadro nuovo, per certi versi sorprendente, per altri inquietante. Un paese di vecchi, sfiduciato, impigrito in un sogno di benessere ormai tramontato per sempre ma difficile da metabolizzare. Con una forte resistenza al cambiamento; sempre pronto alla critica “degli altri”, a volte sarcastica e cinicamente anche divertente, ma chiuso e riottoso ad aprirsi ad un’analisi più profonda e meditata sui propri difetti e, perché no, anche sulle proprie incredibili potenzialità non valorizzate. Un paese stanco dunque, rinchiuso su se stesso, concentrato sulla protezione egoistica e miope del proprio “laghetto” e, soltanto a tratti e grazie a individualità speciali, pronto ad alzare la testa cercando soluzioni di convivenza civile moderne, meritocratiche, competitive e, nello stesso tempo, con un forte imprinting solidale.

Pickett ha provato a fare delle sintesi dei risultati di alcune di queste ricerche sociologiche con una duplice finalità: (i) capire un po’ meglio, aldilà degli stereotipi che circolano, dove siamo finiti e chi siamo davvero in questa seconda decade del terzo millennio; (ii) fornirci un quadro di riferimento delle attuali pulsioni di noi italiani in vista di scadenze politiche nazionali ed europee che segneranno sicuramente una svolta-opportunità, nel bene o nel male, per riagganciarci o meno al treno di uno sviluppo economico reale, in grado di ricreare valore effettivo, ridando fiato ed entusiasmo soprattutto alle nuove generazioni drammaticamente penalizzate da uno “stallo” che dura ormai da oltre vent’anni.

Troppo per qualsiasi comunità!

Ci sono segnali di ripresa a livello mondiale: anche l’Italia inizia a produrre statistiche con razionali economici che presentano il segno positivo ma sempre, purtroppo, con numeri troppo piccoli, sia rispetto ai nostri competitors europei, sia ai bisogni dei suoi abitanti.

Entriamo dunque nell’analisi, seppur sintetica, dei risultati delle ricerche per migliorare la nostra informazione-conoscenza e non farci illusioni o, peggio, sogni velleitari su come oggi noi italiani viviamo la realtà quotidiana, immaginiamo il futuro del nostro paese, esprimiamo le nostre speranze su che cosa ci piacerebbe succedesse nei prossimi mesi nel paese dello “stivale”.

1) Il 25º rapporto Istat: maggio 2017

L’Istituto nazionale di statistica ha presentato un voluminoso documento di ben 279 pagine che affronta il tema della struttura sociale del Paese attraverso le caratteristiche dei gruppi che lo compongono. Preso atto dei dati provenienti dalle ricerche effettuate, l’Istat ha sostituito le tradizionali, vecchie ” classi” sociali con una nuova classificazione dei gruppi sociali che abitano il nostro paese. L’istituto si è posto come obiettivo di riscrivere e aggiornare la mappatura dei principali gruppi nei quali si suddivide la società italiana. A metà degli anni 70, un famoso testo dell’economista Paolo Sylos Labini classificava i gruppi a partire dai rapporti di produzione. Negli anni ‘90 un altro autorevole economista, Schizzerotto, aveva diviso le cosiddette classi sulla base della tipologia delle professioni svolte dagli occupati. Con il rapporto 2017 l’Istat ha deciso di adottare per la classificazione una pluralità di caratteristiche che prendono in considerazione il reddito, l’istruzione, la partecipazione sociale, la posizione nel mercato del lavoro, l’ampiezza della famiglia, la cittadinanza e il luogo di residenza. L’ambizioso obiettivo è di fornire un quadro dinamico delle tendenze degli esseri umani che vivono nel nostro Paese. I gruppi individuati sono nove: la classe dirigente, le pensioni d’argento, le famiglie di impiegati, le famiglie degli operai in pensione, le famiglie tradizionali della provincia, i giovani blu-collar, le donne anziane sole e i giovani disoccupati, le famiglie a basso reddito di soli italiani e le famiglie a basso reddito con stranieri. Una classificazione nuova, stuzzicante perchè innovativa, che ha fatto sorgere un vivace dibattito tra gli esperti del settore perché la discrezionalità nella costruzione di questo schema è ovviamente molto alta.

Il primo verdetto dell’Istat è raggelante: viviamo in una società disgregata e chiusa. In Italia i figli della cosiddetta classe dirigente vanno all’università e diventano a loro volta classe dirigente. I figli degli operai stentano a trovare un posto di lavoro in un mercato che vede crescere soprattutto le professioni non qualificate e scomparire quelle intermedie. Perdono d’identità la piccola borghesia e la classe operaia. In assenza di mobilità sociale, la frammentazione si è cristallizzata, ha commentato il presidente dell’Istat Giorgio Alleva.

Secondo la radiografia di quest’anno, l’Italia appare dunque come una foto un po’ sbiadita, sempre più anziana, con l’ascensore delle classi bloccato e sette giovani, nati tra gli anni 80 e il 2000, i cosiddetti millennians, su dieci bloccati a casa e impigriti in una convivenza necessitata con i genitori. Tradotto in cifre: 8,6 milioni di persone tra i 25 e 34 anni che continuano a vivere a casa di mamma e papà.

Il dato più drammatico è quello che emerge con riguardo alle risultanze di ormai vent’anni di “stallo” del Paese, aggravato dalla crisi degli ultimi 10 anni: la forbice della disuguaglianza continua ad aumentare. Il 6,5% della popolazione rinuncia alle visite mediche per motivi economici: era il 4% nel 2008. Le spese mensili del gruppo sociale della classe dirigente sono il doppio delle spese del gruppo più basso sociale (3.810 € contro 1.697€). 3.590.000 famiglie (il 13,9% del totale) sono senza redditi dal lavoro. Erano 3.172.000 nel 2007. I giovani che tra i 15 e i 29 anni non lavorano e non studiano (i cosiddetti NEET di cui Pickett si è già occupato in passato) sono 2.200.000: abbiamo conquistato , in questo campo, il triste primato in tutta Europa! Come tasso di anzianità della popolazione siamo secondi nel mondo soltanto al Giappone: gli “oltre 65 anni” sono ormai più del 22% del globale. Quasi un quarto! Le culle invece sono sempre più vuote e stentano a riempirsi: l’indice di natalità è sceso a 1,27 figli per donna ed è il più basso di tutta l’Unione Europea.

Un altro dato inquietante è il saldo tra esseri umani nati e morti nell’anno di riferimento, il 2016: è stato negativo per 134.000 unità.

Continuiamo a essere pigri: quattro persone su dieci, dai tre anni in su, non praticano sport né attività fisica nel tempo libero. Sono più pigre le donne rispetto agli uomini. D’altronde le casalinghe sono occupate “davvero” a tenere in piedi il Paese con il loro lavoro. Producono beni e servizi, sempre secondo i riscontri degli analisti dell’Istat, per 49 ore a settimana.

In conclusione un dato che può far sorridere ma deve anche far riflettere: oltre il 60% della popolazione italiana, oltre gli 11 anni di età, ha consumato almeno una bevanda alcolica l’anno; oltre il 20% almeno una bevanda alcolica al giorno.

Stanchi, sfiduciati, delusi dal contesto in cui viviamo ci tiriamo su il morale con l’alcol: oppure affoghiamo nell’alcol le nostre angosce.

2) L’indagine realizzata dal Laboratorio sulla Società e il Territorio (Last) per conto di Community Media Research e Intesa Sanpaolo.

Il report, dell’aprile 2017, aveva come obiettivo quello di testare il polso degli italiani riguardo alla loro percezione sul livello di qualità di vita del Paese. Ebbene i risultati sono stati molto significativi. Quando gli italiani si guardano allo specchio tendono ad evidenziare la loro insoddisfazione, causata più da problemi economici che non da deficit culturali. Siamo molto “tafazziani” tendendo spesso a far risaltare i tratti meno positivi dei nostri comportamenti. Secondo l’indagine esiste una polarizzazione fra la realtà e l’immaginario collettivo. Da un lato emerge un sentimento malmostoso, rancoroso, di insoddisfazione perenne nei confronti di tutto e di tutti ( 25%). Dall’altro un’attenzione più per le dimensioni materiali che quelle immateriali. Se a queste due caratteristiche aggiungiamo che la terza è quella dell’egoismo (oltre il 17% del campione) possiamo tranquillamente affermare che la maggioranza vede nei propri connazionali tratti sostanzialmente negativi.

La laboriosità e un valore riconosciuto complessivamente soltanto da un quinto degli intervistati. L’altruismo e la solidarietà sono virtù identificate solo dal 5,2% al pari dell’autonomismo 5,3%. In ultima posizione viene la religiosità (3,3%) risultato che la dice lunga sul ruolo del papato nel nostro Paese, nonostante gli straordinari sforzi di recupero di papa Francesco.

Da notare che l’immagine che abbiamo di noi stessi, quale quella risultante dall’indagine che stiamo esaminando, non è ovviamente omogenea sul territorio nazionale. L’aspetto della laboriosità è un carattere riconosciuto molto di più al Nord che non al Sud. L’altruismo e la solidarietà appaiono più presenti nel Nord e nell’Italia centrale piuttosto che al Sud. Nel meridione prevale un orientamento materialistico e privatistico. Il Nordest evidenzia uno spirito più autonomista (12,5%) rispetto alla media nazionale (5,3%). Nel complesso si tende a evidenziare comunque più gli aspetti negativi e deteriori piuttosto che quelli positivi. Questo è ormai diventato un vezzo italico e ha, alla sua origine, varie motivazioni. Proiettare sugli altri vizi propri è un modo per liberarsi la coscienza. Certamente la crisi economica e l’incerto contesto politico non aiutano gli italiani ad avere un giudizio positivo sul mondo in cui vivono. Anche la scarsa fiducia nelle istituzioni e la disillusione verso la politica tradizionale non aiutano ad analizzare e valorizzare anche i tratti positivi del nostro DNA. In questo quadro è ovvio, sempre secondo la ricerca citata, che fenomeni come le tangenti, la corruzione, il malaffare, la contaminazione mafiosa non aiutano a costruire un ambiente sociale positivo e di speranza.

Ma l’aspetto più grave, ad avviso di Pickett, è il seguente: la totale assenza di un progetto del futuro del paese, di una cornice simbolica e valoriale in grado di tenere insieme i diversi pezzi di società ed economia verso una direzione condivisa. Mancando una forte identificazione collettiva, siamo molto più diffidenti nei confronti degli altri, esaltandone così le caratteristiche meno positive e virtuose. Il risultato finale è uno scollamento, è una dissociazione tra la realtà e l’immaginario collettivo. Ci piace dipingerci peggio di quello che siamo: il paradigma costruito proprio sul personaggio di Tafazzi che simula il gesto di auto flagellarsi gli organi genitali con ripetitività e ossessione. Siamo quindi fortemente a rischio di imprigionarci all’interno di un circuito perverso. Se non possediamo un orgoglio nazionale cui appellarci, cerchiamo almeno di costruire una narrazione dell’essere “diversamente italiani” chiosava il professor Daniele Marini, dell’università di Padova, i risultati di questa avvilente fotografia del “come siamo diventati”.

“I dati contenuti nella ricerca” – ha scritto il sociologo Claudio loiodice “fotografano una situazione preoccupante specie nell’oramai consolidato divario tra Nord e Sud. Circa il 20% dei giovani ha rinunciato persino a cercare lavoro e non studia. Questo clima di sfiducia generale allontana la popolazione dalle istituzioni, anche da quelle religiose.”

3) Centro studi di itinerari previdenziali sui data base del Dipartimento delle Finanze. (Aprile 2017)

Per tirarci su il morale e non farci mancare nulla, siamo andati a spulciare anche i risultati di uno studio realizzato dal Dipartimento delle finanze del MEF sul rapporto fra gli italiani e il pagamento delle tasse e dei contributi previdenziali per finanziare il sistema welfare. In sintesi, nel 2015, l’anno di riferimento dello studio, il 45,48% dei cittadini – oltre 27 milioni di abitanti -anche per via delle detrazioni e del bonus da 80 €, ha pagato 185 € di Irpef a testa; in pratica solo il 4,87% dell’Irpef totale con pochissimi contributi sociali. Tutto ciò – scrivono gli estensori del rapporto – produrrà gravissime ripercussioni sia sull’attuale sistema pensionistico sia sulla futura coesione sociale. Con quali soldi infatti si potranno pagare le pensioni a questa enorme platea di cittadini? I redditi 2015 dichiarati ai fini delle varie imposte esistenti ammontavano a un totale di 832,9 170 miliardi di euro con un incremento pari all’1,7% rispetto all’anno precedente. Al netto dell’effetto del bonus da 80 € di cui hanno beneficiato oltre 11 milioni di contribuenti con redditi fino a 29.000 €, il totale Irpef versato diminuisce dal nominale di 171,7 114 miliardi a 162,7 150 miliardi. I soggetti dichiaranti nel 2015 sono stati 40 milioni circa ma solo 31 milioni circa hanno presentato una dichiarazione dei redditi positiva per cui considerando che gli italiani sono 60,6 165 milioni, possiamo dedurre che oltre la metà ( 50,9%) degli italiani non ha reddito ovvero che è a carico di qualcuno. Dunque il carico fiscale grava su circa la metà degli italiani che hanno sulle spalle tutto il peso del costo del Welfare.

La domanda che ci si pone torna essere la stessa: chi pagherà dunque i costi di circa 50 miliardi di euro per coprire tutto il nostro sistema sanitario nazionale degli incipienti e i 103 miliardi circa della spesa per l’assistenza? Come si potranno pagare le pensioni di oltre 10 milioni di soggetti che non dichiarano nulla ai fini Irpef E sono anche privi di contribuzione. Secondo alcuni autorevoli esperti del settore ci troviamo di fronte a una cosiddetta “dittatura della maggioranza”. Con una minoranza che legittimamente si chiede: ma perché devo pagare io le tasse per coprire il fabbisogno di tutti?

4) L’analisi di Ilvo Diamanti: Agosto 2017

Pickett è stato particolarmente colpito, proprio in questi giorni di fine agosto, da un intervento del professor Ilvo Diamanti, un acuto lettore dei nostri costumi in perenne evoluzione. Diamanti, sulle colonne de La Repubblica, ha sviluppato una lucida anche se malinconica analisi del nostro paese, se non facciamo attenzione davvero… allo sbando.

“Ho sempre cercato – ha scritto Diamanti – di risalire alle “radici”, al nostro legame con il territorio. La prospettiva che ho sempre seguito, negli studi sulla società e la politica in Italia è sempre stata questa: in Italia il territorio è importante, essenziale per capire il Paese. E’ l’elemento che fonda e differenzia la società e la politica. La vita delle persone. Il territorio, d’altronde, accoglie e riassume la storia, l’economia, le relazioni, i modi di vita. Per questo il nostro Paese è stato osservato dedicando attenzione particolare alle distinzioni, meglio ancora: alle fratture, piuttosto che agli elementi comuni. Da sempre l’Italia è stata rappresentata come un Paese diviso. In due. Nord e Sud. La questione meridionale ha disegnato e definito un’altra Italia. L’Italia dello sviluppo dipendente. Adesso, in anni più recenti, si è posta la questione settentrionale, rappresentata negli anni ’90 anzitutto dalla Lega Nord. Da un lato, a Sud, Roma matrona. Dall’altro, a Nord, Roma ladrona”.

Ma le Italie – continua il ragionamento di Diamanti – delineate dalle ricerche e dagli studi sul nostro “chi siamo oggi” non sono solo due. Ce ne sono altre, diverse. Bagnasco già negli anni ’70-’80 mise in evidenza l’esistenza di tre Italie: quella del Nord, della grande industria; quella del Sud, dello sviluppo assistito; la terza Italia, quella del Centro-Nordest, dove prevalgono piccole imprese e piccole città. Altri studiosi come Fuà, Ascoli e Paci hanno parlato del modello Nec (Nord, Est, Centro). Il Censis ha molto insistito sulla proliferazione dei sistemi locali. Anche nel Mezzogiorno. Perché non ci sono solamente diverse Italia. Diversi Nord e anche diversi Sud. È la stessa Italia centrale che si sta differenziando.

Diamanti, a questo punto della sua ricerca, ricorda un “mantra” che accompagnò la Presidenza Ciampi. L’Italia – ripeteva il Presidente – è un “Paese di paesi”. Il suo principale elemento di unità e di comunità sono le “differenze”. La sua molteplicità. La diversità territoriale – secondo Diamanti – ha sempre avuto riflessi politici evidenti. La terza Italia, quella del Nord-Est, è sempre stata caratterizzata dalla prevalenza dei partiti di massa. Il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana. Entrambi legati alle tradizioni storiche ed ideologiche del territorio: zone bianche e zone rosse. Il Nord metropolitano invece e il Mezzogiorno mostravano una comune instabilità: un comune equilibrio di forze. Ma a fronte di una geografia sociale e politica riconoscibile e chiara, quella degli anni ’70-’80-’90, oggi ci ritroviamo davanti una fotografia completamente diversa, priva di tutti quei riferimenti politici e territoriali appena descritti. I partiti di massa si sono liquefatti. I nuovi partiti sono personalizzati e personali. Il principale interprete – conclude Diamanti – di questa stagione confusa e malmostosa del nostro Paese, non per caso, è il Movimento Cinque Stelle. Nessun retroterra ideologico e politico. Semmai l’antipolitica divenuta bandiera del Movimento. Non esiste una geografia elettorale precisa. Ogni tragedia, ogni catastrofe naturale ha come responsabile lo Stato. Le classi dirigenti. In questo “Paese di paesi” ormai non c’è più una geografia politica e ogni occasione costituisce una opportunità per scagliarsi contro le istituzioni.

5) Una riflessione finale

Se siete sopravvissuti a questo Libro Nero dello stato dell’arte psicologico del nostro Paese, proviamo a concludere insieme l’analisi con qualche accenno di razionale speranza. Probabilmente in questo disordine, in questa confusione, in questo frullatore di ansie, angosce e delusioni gestite, purtroppo, anche da molti gaglioffi, dobbiamo tornare ai fondamentali. Dobbiamo cercare di fare tutti la nostra parte. Il Paese ha risorse storiche, artistiche e culturali tali da poter diventare, ad esempio, la prima destinazione mondiale di un turismo di alto livello portatore sul nostro territorio di flussi di turisti ad alto reddito, creatori di vera ricchezza occupazionale e sociale per tutto il nostro Paese. Ma questo è soltanto il più banale degli esempi per acquistare la consapevolezza che abbiamo in mano una potenziale “pepita d’oro” e che dipende solo da noi farla diventare davvero una chiave di volta del nostro futuro. In tutto ciò c’entra anche molto l’aspetto psicologico: il crederci, il responsabilizzarsi, l’abbandonare atteggiamenti da Tafazzi, concentrandoci su progettualità di sistema che ci permettano di sperare di traghettare il “Paese dei paesi” verso un paese moderno, competitivo, solidale, che non ha perso il valore delle proprie differenze interne ma le ha valorizzate all’interno di una grande strategia di sistema.

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