A Pickett sembra che, almeno in apparenza, ci sia un convergenza di consensi sulla priorità di un intervento, non solo in Italia, per cominciare a ridurre le disuguaglianze.

Tra le svariate ipotesi di “medicine” adottabili contro questo virus che sta massacrando le democrazie gestite da “élite” distratte e ricurve sui propri privilegi, c’è la leva fiscale. Alziamo le tasse alle classi alte e redistribuiamo il maggior reddito sugli altri, soprattutto a favore di quelli che “non ce la fanno più”.

Tutto semplice? Tutto risolto? Pare proprio di no.

Se infatti la diagnosi del malessere diffuso che ci ha portati tutti a vivere questo laboratorio populista-sovranista dai destini incerti è abbastanza unanime, sulla terapia si aprono grandi dibattiti, si organizzano numerosi convegni e summit politici. Ma di provvedimenti concreti neanche l’ombra.

Sui giornali di tutto il mondo, si discute e si discetta vivacemente sulle varie formule di intervento, barcamenandosi tra ipotesi soft (flat tax e dintorni) e ipotesi hard (patrimoniale, imposta di successione, revisione delle aliquote fiscali in maniera ancora più progressiva).

I vari governanti traccheggiano cercando di evitare di inimicarsi parti dell’elettorato in vista delle prossime elezioni, con provvedimenti che potrebbero incidere sui loro elettori.

In questo etereo confronto “alto e accademico”, mentre “Corinto brucia”, a Pickett è rimasto impresso un contributo di un notissimo e apprezzato economista liberal americano (Premio Nobel per l’economia nel 2008), Paul Krugman, che sulle colonne del New York Times ha approfondito l’argomento.

Krugman ha voluto evidenziare alcune contraddizioni e semplificazioni che riguardano le critiche dei Repubblicani allo slogan “tassiamo i ricchi”, portato avanti da numerosi esponenti del partito democratico americano.

Ve ne sintetizziamo il ragionamento.

Krugman parte dalla constatazione che il manifesto politico di Alexandria Ocasio-Cortez, la giovane deputata eletta al Congresso contro ogni pronostico della vigilia, è centrato sulla difesa e consolidamento della politica fiscale americana basata su un’aliquota del 70-80% sui redditi più alti. E che, per molti analisti americani, soprattutto repubblicani, tale posizione è considerata folle e contro ogni logica, salvo quella populista.

Due famosi economisti statunitensi, Peter Diamond ed Emmanuel Saez, specializzati proprio in finanza pubblica e in tematiche connesse con la lotta alle eccessive disuguaglianze, secondo Krugman, la pensano sostanzialmente come la deputata Ocasio-Cortez.

Stimano, infatti, che l’aliquota fiscale massima ottimale sia del 73%. Per un’altra autorevole esperta, Christina Romer, già consulente del Presidente Obama, la stima è addirittura di oltre l’80%.

Krugman ci prende per mano e ci accompagna, attraverso uno storytelling divulgativo e quindi comprensibile, nei complessi meandri degli studi di Diamond e di Saez.

Alla base delle loro analisi ci sono due presupposti: (i) quello di un’utilità marginale decrescente e (ii) quello dei mercati competitivi.

Il primo presupposto è basato sul buon senso, per cui un dollaro in più vale molto meno, in termini di soddisfazione economica, per le persone con redditi molto elevati, rispetto a quelle con redditi bassi. “Se diamo ad una famiglia- scrive Krugman – con un reddito annuo di 20.000 dollari, una somma extra di 1.000 dollari, questa iniezione di denaro fa una grande differenza per la loro vita. Se invece diamo questi mille dollari ad una che ne guadagna un milione, probabilmente nemmeno se ne accorge”.

Questo dimostrerebbe che non dovremmo preoccuparci degli effetti di una politica economica improntata su un’alta tassazione dei redditi dei molto ricchi. Una politica che li renda un poco più poveri avrà un peso marginale sulla qualità della loro vita, “dato che saranno ancora in grado di comprare tutto ciò che vogliono”.

Krugman a questo punto si chiede “perché allora non tassarli al 100%? La risposta è che ciò eliminerebbe qualsiasi incentivo a fare quello che fanno per guadagnare così tanti soldi e questo danneggerebbe l’economia”.

In altre parole, l’economista americano ci sottolinea come la politica fiscale verso i ricchi non dovrebbe avere nulla a che fare con gli interessi dei ricchi medesimi, di per sé, ma dovrebbe solo preoccuparsi: “di come gli effetti di incentivazione cambino il comportamento dei ricchi e di quanto questo interessi il resto della popolazione”.

E qui entra in gioco il secondo presupposto della teoria di Krugman: quello dei “mercati competitivi”.

In un’economia perfettamente competitiva, senza monopolisti, oligopolisti, o altre distorsioni, ognuno viene pagato nella misura della sua produttività marginale: “questo significa che – scrive Krugman – se vieni pagato 1.000 dollari all’ora è perché ogni ora in più del tuo lavoro aggiunge un valore pari a 1.000 dollari ai risultati economici”.

Perché allora ci preoccupiamo di quanto lavorino i ricchi? “Se un ricco lavora un’ora in più – continua Krugman – aggiungendo 1.000 dollari all’economia, ma viene pagato 1.000 dollari per i suoi sforzi, il reddito combinato di tutti gli altri cittadini non cambia…vero? E invece sì perché su quei 1.000 dollari in più ci paga le tasse. Quindi – e qui risiede il cuore della teoria dell’economista americano – il beneficio sociale derivante dall’ottenere che gli individui ad alto reddito lavorino un po’ di più è che il gettito fiscale generato da questo reddito addizionale va a vantaggio di tutti, mentre il costo del loro lavorare di meno diventa la riduzione delle tasse che pagano…quando tassiamo i ricchi, dobbiamo preoccuparci solo di quante entrate riscuotiamo. L’aliquota fiscale ottimale per le persone con redditi molto alti è il tasso che riscuote il più alto livello di entrate possibili.”

Cosa succederebbe invece se prendessimo in considerazione la realtà che i mercati non sono perfettamente competitivi e che in giro ci sono tanti esempi di potere monopolistico?

La risposta di Krugman è precisa e tagliente: “questo scenario, quasi sicuramente, giustifica aliquote fiscali ancora più elevate, dal momento che le persone ad alto reddito presumibilmente incassano molte di queste rendite di monopolio.”

La chiusura del ragionamento dell’economista americano tende a dimostrare che le proposte di politica economica del partito repubblicano mirate ad una riduzione delle aliquote dei più ricchi per favorire il rilancio della crescita, siano egoistiche e sbagliate.

Questa pretesa si basa sugli studi di…nessuno. Le prove contro queste idee sono schiaccianti. L’America aveva livelli di tassazione molto alti per i ricchi e tutto andava bene. Da allora le aliquote fiscali sono diminuite e non si può negare che l’economia sia andata peggio. Perché, quindi, i Repubblicani aderiscono ad una teoria fiscale che non ha alcun sostegno da parte degli economisti più seri ed è confutata da tutti i dati disponibili?” La risposta alla domanda retorica che Krugman pone ai suoi lettori è autorisolutiva: “chiedetevi chi trae beneficio da imposte più basse dei ricchi e la risposta sarà ovvia”.

Gli economisti ci hanno più volte dimostrato di non essere dei grandi e lucidi lettori del futuro del nostro modello economico capitalista: hanno spesso sbagliato le previsioni, sommando errori della politica a propri errori di visione.

La riflessione di Krugman però, ci sembra utile per fornirci strumenti di confronto con le teorie alternative a quella da lui esposta che, non solo in America, sostengono l’utilità di un abbassamento delle aliquote fiscali delle classi più ricche, in quanto la maggior disponibilità di denaro favorirebbe automaticamente consumi ed investimenti: un teorema, secondo Krugman, tutto da verificare.

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