Il rischio di esserci cacciati in una spirale irrisolvibile è alto. Altissimo.

Da un lato il nostro paese si trova in una situazione paradossale: c’è chi cerca lavoro e non lo trova e, nello stesso tempo, aziende che non sanno come riempire gli organici. Non trovano addetti qualificati ai loro bisogni di manodopera.

Dall’altro lato, le ultime indagini, evidenziano che il lavoro non può essere lo strumento per uscire da uno stato di povertà, apparente irreversibile. Infatti non incide per i pensionati, i disabili, i malati, per coloro che devono assistere familiari che non stanno bene, che non sono autosufficienti. Tutte categorie queste, che non possono accettare un lavoro anche se gli venisse proposto.

Anche il Reddito di Cittadinanza non potrà risolvere il problema: non saranno infatti in grado di assolvere la condizione posta dalla norma e cioè l’accettazione di un’occupazione, nell’arco di tempo individuato, in caso di proposta di lavoro.

Un bel guazzabuglio davvero!

Una questione che è difficile non solo da risolvere, ma, prima ancora, da affrontare. Da impostare.

Con quale metodo, con quale priorità? Il tema del “con quali risorse” viene paradossalmente dopo. Prima bisogna individuare un metodo di intervento senza contaminazioni propagandistiche o velleitarie.

Pickett ha provato ad approfondire questa spinosa questione, fondamentale per sperare di mantenere e gestire una coesione sociale almeno dignitosa, ascoltando il parere di esperti ed incrociandoli con i dati che provengono dagli studi economici e sociali della nostra realtà quotidiana.

Ecco un primo quadro della situazione che, ovviamente, necessiterà di ulteriori implementazioni.

Seguiamo l’ordine iniziale, quello tracciato nel titolo in questo post.

Disoccupazione crescente e mancanza di addetti

La disoccupazione giovanile è un’emergenza assoluta e tocca ormai un terzo dei nostri ragazzi. Al Sud addirittura più del 50%. Oggi ci confrontiamo con un’Italia dove convivono quelli che cercano disperatamente lavoro e non lo trovano e diverse aziende che, come vedremo tra poco, non riescono a trovare la manodopera che cercano. Un mismatching che secondo l’ultimo rapporto di Unioncamere è salito in un solo anno dal 22% al 28%.

Barbara Ardù su La Repubblica ci ha recentemente segnalato due casi emblematici di questo paradosso che tocca molte altre aziende operanti in Italia.

EnelX, la società del gruppo Enel che sta realizzando la rete infrastrutturale per la mobilità elettrica, non trova operai specializzati in grado di montare le colonnine elettriche. “Non riusciamo a reperire ditte capaci di farlo – ha dichiarato l’amministratore delegato Venturini.”

Il gruppo multinazionale Scania, da parte sua, non trova né meccanici né autisti. Stiamo cercando 500 meccanici di officina – ha dichiarato l’amministratore delegato di Scania Italia Fenoglio, “ragazzi giovani che abbiano ottenuto un diploma da un istituto tecnico e abbiamo voglia di lavorare anche perché le nostre officine non sono più luoghi bui, freddi, con pavimenti scivolosi e uomini con le mani nere di grasso. Oggi sono luoghi caldi, dove tutto si controlla con dispositivi elettronici, tant’è che invitiamo le donne a provare a fare un lavoro che oggi non è più quello di una volta.”

La Scania sta cercando ragazzi per posti di lavoro che valgono 2.000 Euro al mese, molti di più di quanto guadagnano un rider o un addetto ai call center. Fenoglio ha anche un’idea precisa in testa su cosa bisognerebbe fare anche dal punto di vista educativo: “Ho un pallino – ha spiegato – tutti sognano di avere un figlio dottore, di farlo studiare, o comunque di metterlo dietro a una scrivania. Ma i lavori possono essere tutti interessanti, basta metterci passione. Una convinzione che dovrebbe partire proprio dalle famiglie.

Il problema di Scania Italia vale anche per gli autisti, ragazzi pagati 4.500 Euro al mese. “Nei prossimi cinque anni ce ne serviranno circa 20.000 in Europa e 5.000 in italia – ha detto sempre Franco Fenoglio amministratore delegato di Scania Italia – tra una decina d’anni con la guida autonoma gli autisti saranno seduti davanti ad un computer.”

Ma la lista dei lavoratori introvabili continua, mancano figure qualificate sia nelle attività commerciali come nei servizi. Nei medici, ad esempio, sappiamo quelli che andranno in pensione e che dovranno quindi essere sostituiti: i numeri scarseggiano. Gli operai specializzati più ricercati sono ad esempio il calderaro, un saldatore capace però di saldare in modalità circolare. Sono pochi anche i tornitori e i prototipisti. Infine, c’è una grande carenza di traduttori professionisti, di paramedici e di tutte le professioni legate alla cura delle persone.

Qualcuno solleva dei dubbi, visto questo scenario incredibile, sulla correttezza della strategia adottata in tema di formazione. “Forse – ha recentemente dichiarato Maurizio Del Conte dell’ANPAL – i soldi spesi nella formazione sono sempre stati troppo pochi ma sono anche stati spesi male. Troppi vincoli, troppa burocrazia, troppi furbastri. Un esempio sono i corsi di inglese: facili ed economici ma necessari. La colpa però – aggiunge Del Conte – è anche delle imprese che hanno sempre preferito puntare sul basso costo del lavoro piuttosto che sul capitale umano.

Forse, aggiungiamo noi, abbiamo da scontare un deficit culturale e di metodo. Invece di rendere possibile il sistema della formazione adattandolo di più alle reali esigenze del mercato, continuiamo ad insistere sulla formazione di mestieri e professioni inflazionati e privi sbocchi. Infischiandocene, nella sostanza, della legge della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro.

L’esempio della Piazza dei Mestieri di Torino e Catania, che vi abbiamo raccontato in diversi post di questo blog, ci aiuta a capire come sia possibile costruire una virtuosa politica attiva del mondo del lavoro, formando i giovani con lo strumento della scuola-lavoro (aula e stage aziendali) in grado di ridurre questo curioso ma tragico paradosso esistente in Italia.

Il lavoro non basta per ridurre la povertà

Il titolo sembra provocatorio ma non lo è. Ce lo conferma una ricerca di due economisti dell’Università di Modena e Reggio Emilia, Massimo Baldini e Giovanni Gallo, che spiegano come si distribuiscono in Italia le famiglie povere, quelle con un reddito inferiore al 40% del livello medio nazionale: quelle che vivono quindi in una sostanziale povertà assoluta.

Lo studio dei due economisti spiega quella che è una realtà già drammaticamente percepita e cioè come sia un’illusione pensare di risolvere il problema della povertà puntando tutto su una congrua offerta di lavoro. Per tutti gli operatori del settore essere poveri è una condizione che va ben oltre la sola mancanza di lavoro e di reddito. Riguarda, in realtà, molte altre carenze: familiari, abitative, di salute, psicologiche. Richiede dunque la presenza sui territori locali di una rete integrata di servizi in grado di dare risposte efficienti al reinserimento sociale di questi individui. Ecco perché esistono molti dubbi e molte critiche sulla norma che ha sostanzialmente sostituito i Comuni con i Centri per l’Impiego Regionali, proprio nell’ambito del modello relativo al Reddito di Cittadinanza. Questa decisione, anche normativa, dell’attuale Governo rappresenta per molti operatori del settore un clamoroso errore frutto di una cattiva comprensione del problema relativo ai cinque milioni di poveri ormai registrati nel nostro Paese.

Su cento famiglie povere sotto i 60 anni quelle in cui gli adulti lavorano tutti sono una su quattro: ecco i working poors perché il loro salario è da fame o perché il contratto, quando c’è, è transitorio. Un altro 10% di poveri è costituito da famiglie con gravi problemi di salute o di invalidità per le quali è praticamente impossibile trovare o accettare un lavoro. Resta dunque un 65% che almeno sulla carta potrebbe accedere ai lavori proposti dai Centri per l’Impiego, ciò al di là di ogni valutazione che faremo tra poco, sulla manifesta inadeguatezza dei Centri per l’Impiego a svolgere il loro ruolo centrale nell’ambito del format sul Reddito di Cittadinanza. Basta un dato per spiegare quanto siamo indietro in materia e quanto sia complessa la materia: negli altri paesi europei, dove i servizi per l’impiego funzionano molto meglio, le politiche contro la povertà riescono a trovare un lavoro stabile a non più del 25% di tutti i poveri.

Come detto comunque il vero tema è dare una prospettiva a quel terzo di poveri per i quali il lavoro non è, e non sarà mai, la risposta. Queste famiglie non hanno bisogno di sussidi finanziari ma di una casa popolare, di un’assistenza sanitaria, sociale e scolastica. E qui torniamo al ruolo essenziale che dovrebbero svolgere i Comuni, ente pubblico territoriale insostituibile per fronteggiare la povertà.

C’è dunque un grande tema nel nostro Paese di cui però non si parla, o comunque si parla poco, che è quello dei servizi di cui hanno bisogno i poveri: non solo un sussidio finanziario ma un’assistenza medica e sociale che renda meno drammatico e più dignitoso il loro già difficile vivere quotidiano.

I Centri per l’Impiego: luci ed ombre

Saranno, come detto, lo snodo del Reddito di Cittadinanza. I siti dove i soggetti aventi diritto potranno trovare soddisfazione ai loro dubbi, bisogni, richieste, domande.

La polemica sulla scarsa efficienza dei Centri è sulle pagine di tutti i giornali.

Esistono ma non funzionano. Hanno risorse ma non sono valorizzate. In tutta Italia i Centri sono 840, comprese le sedi distaccate, con circa 8.000 dipendenti che costano poco meno di 350 milioni all’anno.

Un cronista de La Stampa, Andrea Carugati, ha voluto verificare di persona la situazione e si è recato al Centro di Primavalle, periferia est di Roma.

Il suo reportage è grottesco ma istruttivo. Per certi versi disperante, per altri stimolante. Eccovi una sintesi del suo “sopralluogo” nel Centro di Primavalle.

Quando il giornalista entra negli uffici si trova subito davanti, su un tavolino, due quadernoni “quelli con gli anelli che si usavano a scuola”. Uno con le offerte di lavoro per i giovani under 29 e uno per i disabili. Alla domanda: “Scusi, ma un quarantenne disoccupato ce l’ha un quaderno dove guardare?” la guardia giurata (la gran parte dei dipendenti è in assemblea sindacale e quei pochi rimasti non sono in grado di gestire le persone che chiedono chiarimenti) risponde: “Ecco, guardi in questo quaderno rosso” che compare magicamente sul tavolino: era nascosto in un cassetto!

Lei, se è disoccupato, si può iscrivere – dice al cronista una delle poche addette agli sportelli, presente nei locali – poi le offerte le trova sul sito o sui quadernoni. Non siamo in grado di chiamare le persone in base ai curriculum. E’ un lavoro impossibile, i numeri degli iscritti sono enormi.

Dunque, che cosa deve fare chi cerca un lavoro? Chiede il cronista: “deve fornire la DID e cioè la “Dichiarazione di Immediata Disponibilità al Lavoro”. Una volta firmata quella la possiamo chiamare.” Dunque se io ho un parente da accudire in quanto malato non posso richiedere il modulo per la DID? Chiede il cronista: “si, perché si vede che lei non è un disoccupato.”

Il cronista incrocia poi i commenti e le storie dei disoccupati in coda nel Centro: “il lavoro l’ho trovato per conto mio, sono venuto qui solo per fare i documenti. Si deve venire ogni volta che inizia o finisce un contratto a termine. Alla fine io autocertifico delle cose e loro mi rilasciano il certificato. Un gioco dell’oca!

Ci hanno convocato – racconta un altro disoccupato – per seguire un percorso con il progetto governativo denominato “Garanzia Giovani”. Ci hanno messo in una stanza per fare delle simulazioni di colloqui di lavoro. Poi ci hanno detto di guardare le offerte sui siti. Dopo un paio di volte non sono più andato. E pensare che questi corsi vengono pagati dallo Stato…”.

Un altro disoccupato in coda sembra più sollevato: “grazie a Dio il lavoro l’ho già trovato. Qui faccio solo i documenti.

Una ragazza incinta con la madre spiega il perché sia venuta al Centro: “Noi abbiamo bisogno della Dichiarazione di Disoccupazione altrimenti l’ASL non ci passa le visita degli esami.

Concludiamo la carrellata degli intervistati con un altro disoccupato “forever”, “ho perso il lavoro fisso da anni, faccio dei lavori a tempo e vengo qui per aprire e chiudere la NASPI. Ma qui di lavoro non si trova nulla. Al massimo puoi ambire a fare dei corsi di formazione.

Un affresco grottesco che ci dimostra come quei luoghi pubblici che dovrebbero diventare il cuore della riforma sul Reddito di Cittadinanza per ora si limitano a fare, più o meno bene, i certificatori di una massa di documenti che la burocrazia statale pretende per gestire la disoccupazione.

Carta, carta, carta ma pochissime prospettive di trovare un’occupazione!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.