L’espressione del viso, il sorriso tra il formale e il friendly, lo sguardo sempre attento, curioso, quasi presuntuoso, non lasciano mai neutro l’interlocutore di turno. Può piacere o meno. Innervosire o affascinare, ma non ti lascia certo indifferente. Il filmato su Youtube del suo speech ad Harvard (che aveva abbandonato nel 2005 senza laurea) in occasione del conferimento della Laurea Ad Honorem ti regala un Mark Zuckerberg diverso, sorprendentemente (ma questa è la sua caratteristica peculiare) emozionato all’inizio del discorso e poi via via sempre più calato in un nuovo ruolo. Dal puro rivoluzionario digitale, inventore di un media che in tredici anni (Facebook è stato lanciato la prima volta il 4 febbraio 2004) ha raggiunto quota 2 miliardi di utenti, si è trasformato in un trentatreenne, lucido nell’analisi della società in cui viviamo, dell’America di Trump in cui vive lui; responsabile e visionario nel rendersi conto del posizionamento raggiunto dai social media, dalla centralità della loro funzione (giusta o sbagliata che sia) in termini educativi e comportamentali; consapevole quindi della missione, anche sociale e politica, che lo attende. A quanto pare, a cui non vuole sottrarsi. Il giovane ragazzo di White Plan cresciuto a Dobbs Ferry a circa 10 miglia a nord di New York ne ha fatta di strada. Ebreo, figlio di un dentista, Edward e della psichiatra Karen Kempner, Zuckerberg eccelleva fin dalla High School nelle materie classiche. SI tramanda e Mark lo conferma spesso, di essere in grado di declamare a memoria lunghi pezzi di poemi epici come l’Iliade e l’Odissea. Sostiene anche di leggere e scrivere in francese, ebraico, latino e greco antico. Indimenticabile la sua ultima trasferta a Roma quando di fronte ad un autorevole target di professori universitari denotò una profonda conoscenza dei classici e della letteratura italiana antica.
Quello che ha colpito Pickett, ascoltando il suo speech nella “sua” Harward, in una piovosa giornata di questo maggio 2017, davanti ad una platea bagnata fradicia ma plaudente durante i passaggi chiave della cerimonia solenne della laurea Honoris Causa, è l’assunzione da parte di Zuckerberg di una responsabilità non solo individuale e imprenditoriale, ma anche collettiva e sociale. Reduce da un lungo viaggio di esplorazione nell’America dei Loosers, il Presidente e Amministratore Delegato di Facebook ha evidentemente capito che il rutilante mondo dei social network non può vivere in una bolla magica distinta e distante dai problemi veri e reali della popolazione. In particolare, in un momento di confusione politica, di disagio sociale, di malessere economico come quello che stiamo vivendo.
Il suo giro per gli Stati Uniti dei “meno fortunati” (disoccupati, carcerati, giovani tossico dipendenti, agricoltori in difficoltà economica) è stato subito targato come una trovata pubblicitaria mirata a diffondere un’immagine nuova e solidale del fondatore di Facebook. Il viaggio, insomma, studiato a tavolino valorizzando tutti gli strumenti di un media così diffuso, innovativo e coinvolgente come appunto Facebook.
Può anche darsi: ma questo aspetto ci interessa marginalmente. Se fosse vera la presunta manipolazione mediatica, rimarrebbe soltanto la delusione di un’occasione sprecata. Quale? Quella di un esempio virtuoso, di un uomo giovane, di sicuro talento, visionario, che invece di chiudersi nei suoi successi, nei suoi soldi, nelle sue ambizioni, si pone dei problemi. Va a conoscere la faticosa realtà della vita quotidiana dei Loosers; esce dalla bolla digitale di Silicon Valley e, in una occasione cruciale della sua vita privata e professionale (il riconoscimento accademico di quella comunità universitaria che aveva dovuto abbandonare nel 2005 e che oggi lo riaccoglie di nuovo tra le sue fila conferendogli il simbolo più prestigioso e autorevole) non si ferma ad elencare i successi ottenuti, ma fa un esame di coscienza e lancia nuove sfide. Sorprende, tanto per cambiare, l’uditorio presente ma anche quello semplicemente connesso, con una serie di considerazioni profonde e alte che alcuni commentatori hanno letto come una vera e propria candidature politica. Zuckerberg parla di una sfida generazionale per far progredire la società coniugando la creazione di posti di lavoro con l’individuazione di un nuovo senso/scopo alle nostre esistenze. Non solo business, accumulo di ricchezze, successo, tecnologia sempre più innovativa e coinvolgente, ma anche lotta alle diseguaglianze e alla imperante depressione da perdita di speranze per il futuro. Una consapevole quindi assunzione di responsabilità, individuale ma anche collettiva, da parte di uno dei 5 uomini più ricchi del mondo che, a trentatré anni e con una faccia ancora da “pischello”, diremmo noi, grida al mondo la sua disponibilità a farsi carico di un grande New Deal di stampo rooseveltiano per cambiare il mondo.
Non rinnega nulla del suo passato e del suo percorso. Si pone soltanto il tema di come rimodulare la sua creatura in una media company che possa diventare uno degli strumenti attuativi del new deal che ha in testa.
Ecco perché Pickett, forse cinicamente, pensa che sarebbe davvero un gran peccato che tutto lo speech di Mark Zuckerberg si risolvesse o riducesse, fate voi, in una abile mossa solo pubblicitaria e priva di contenuti reali.
Infatti, questo nostro bistrattato  mondo, fatto di convivenze difficili, apparentemente impossibili, avrebbe proprio bisogno della freschezza di pensiero, spregiudicatezza di toni, della energia fisica ed intellettuale, della passione  e dell’impegno sociale di trentenni dotati di talento che sapessero girare pagina. Togliendosi i “tappi” delle nostre generazioni e dando vita ad un nuovo establishment conscio della sfida e degli inerenti doveri e responsabilità.
Questo scriveva Massimiliano Panarari su La Stampa di qualche giorno fa.
Dai Mark non deluderci! Facci sognare con quella espressione arrogantella ma determinata.
Ne abbiamo bisogno.

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