È passato più di un mese da questa fatidica data della nostra storia contemporanea. Ogni volta, da ormai 72 anni (25 aprile 1945/25 aprile 2017) scoppiano le polemiche, si scontrano i sopravvissuti di quella drammatica pagina delle nostre esistenze di italiani, si riaprono i confronti su cosa accadde, secondo alcuni “sul serio”, in Italia in quell’anno disastroso. Si riaccendono vecchi odi o, peggio, ne nascono di nuovi, forse più preoccupanti.

Perché, si chiede retoricamente Pickett, succede tutto questo in Italia? Perché, una data che coincide in tutto il mondo con la fine della II Guerra Mondiale e con la sconfitta del nazifascismo, scatena, nel nostro paese, tanto astio, tante diatribe, tanti dubbi addirittura sull’attualità e utilità di tale ricorrenza?

Quest’anno, al di là di una manifestazione organizzata e non autorizzata al cimitero di Milano da un gruppo di estrema destra (dalle foto dell’evento animato da molti ragazzi tra i 15 e i 35 anni!!) che ha dato un segnale forte su cosa stia bollendo nella pentola del malessere di parte delle nuove generazioni, è esplosa una ridicola polemica sulla legittimità della partecipazione della Brigata Israeliana al corteo e alla manifestazione pubblica appunto di ricordo della Liberazione del 25 aprile 1945. Ogni anno si riattizza il fuoco delle contrapposizioni, delle reciproche delegittimazioni; si riaprono ferite psicologiche evidentemente non cicatrizzate.

72 anni dopo i giornali si riempiono ancora non solo e non tanto delle cronache delle varie commemorazioni di quell’evento in tutte le città d’Italia, ma delle contestazioni, a volte degenerate in vere e proprie risse, di persone che interpretano e vivono quella data storica in modo diverso, contrapposto, violentemente “anti”, non dialogabile o condivisibile.

Pickett il tema lo conosce bene. Lo ha studiato, approfondito e sviscerato in tanti anni di letture, di ascolto dei protagonisti di allora, di confronto con i rappresentanti delle posizioni più fondamentaliste in campo. In più, lo ha vissuto in diretta fin da quando, diventato adolescente, iniziò a sentire i racconti in famiglia di parenti che fecero scelte diverse in quel settembre del 1943.

Ebbene la risposta all’interrogativo iniziale di questo articolo è, per Pickett chiara, precisa e senza tentennamenti: SI! Ha ancora un senso considerare il 25 aprile 1945 una data fondamentale della nostra storia patria: a maggior ragione oggi quando i sopravvissuti e i testimoni sono rimasti pochi e quindi rare sono le testimonianze dirette, non contaminate o manipolate da interessi di parte. Soprattutto oggi anche perché le nuove generazioni sappiano cosa è accaduto in Italia in quegli anni e perché sia importante celebrare la Liberazione, non solo nel nostro paese, dalle dittature imperanti in quei drammatici anni a metà del secolo scorso.

Quella Liberazione, al di là del contributo certo risolutivo degli eserciti alleati, fu possibile anche grazie al supporto attivo e generoso di parte della popolazione civile italiana che aiutò, rischiando la pelle, gli anglo-americani a sconfiggere il nemico. Quegli uomini e quelle donne, oltre che della loro fede politica, a volte diversa o addirittura contrapposta, erano mossi da ideali comuni, alti etici e solenni: la riconquista della libertà e della democrazia dopo gli anni dell’oscurantismo fascista. Il senso della patria, lo sprezzo del pericolo, il coraggio personale si coniugavano con la volontà di mettere fine ad un regime che aveva portato il paese alla rovina fisica e psicologica.

Sul contenuto del progetto politico della Resistenza e della Liberazione poi Pickett non crede ci debbano essere o residuare dei dubbi. Per dirla con una sintesi ereditata dai film western americani, chi fossero i Buoni e chi i Cattivi non è in discussione. Il tema è un altro: più spinoso e controverso. Non ancora metabolizzato unanimemente. Ogni progetto politico per diventare realtà ha bisogno delle gambe degli esseri umani. Ha bisogno di essere declinato nella quotidianità per non rimanere un’utopia astratta. E quando gli esseri umani diventano i protagonisti dell’attuazione concreta di un progetto politico alto, la storia dell’umanità ci insegna che nascono le interpretazioni, le visioni, gli obiettivi tattici diversi. Ognuno, anche presupponendo l’onestà intellettuale di tutti e quindi la loro buona fede (cosa già di per sé è statisticamente difficile per non dire impossibile) pensa, decide e agisce secondo coscienza o secondo i propri soggettivi modi di interpretazione del progetto politico alto e condiviso con tutti in astratto. In più, e il tema si complica ulteriormente, la storia di questa attuazione del progetto politico la scrivono poi gli stessi esseri umani, ciascuno con le proprie idee in merito ai fatti che sceglie di raccontare. E allora quel progetto politico “alto ed etico” inizia ad essere narrato su diversi piani, con diverse finalità, mischiando fatti oggettivi a opinioni soggettive. Costruendo un “frullato” narrativo non più rispondente alla sola e unica motivazione della miglior conoscenza di cosa accadde. Ma rispondente invece a cosa si vuole che passi come l’unica verità di quell’evento e della sua ricostruzione postuma. La cosiddetta vulgata storica fortemente contestata dallo storico De Felice, il primo che cercò di aprire gli armadi con gli scheletri di quella storia.

È ormai un dato riconosciuto da molti, autorevoli cultori della materia che la Guerra Civile che segnò drammaticamente quasi venti mesi della nostra storia patria (dal settembre del 1943, data dell’armistizio con gli alleati, all’aprile del 1945, data della Liberazione, appunto), nel ventennio successivo, fino agli anni ’60 dunque, fu raccontata e quasi monopolizzata da autori interessati non tanto alla ricostruzione e glorificazione delle imprese dei vincitori, ma soprattutto di una parte specifica degli stessi. La politica, fin dal 1945 ci mise “il cappello” su questa narrazione determinante per cristallizzare chi fosse stato decisivo nel conseguire la vittoria finale al termine della guerra e per giocarsi meglio la sfida politica appunto. Gli ideali alti e profondi del movimento partigiano furono contaminati, in questo modo, dagli obiettivi politici degli autori, consolidando una rilettura dell’accaduto di parte, in molti casi non solo contestata ovviamente dagli sconfitti, ma anche dagli stessi vincitori … dimenticati o comunque marginalizzati nella rievocazione. Questa miope impostazione storico-letteraria nel medio-lungo termine ha scatenato una reazione uguale e contraria. Dallo sdoganamento del termine Guerra Civile, operato agli inizi degli anni ’90 dallo storico di sinistra Claudio Pavone, recentemente scomparso, si sono via via consolidati i filoni, cosiddetti revisionisti, culminati con la serie di libri, di grandissimo successo editoriale, di Gianpaolo Pansa, mirati a raccontare quella parte della storia della Resistenza, in quei venti mesi di Guerra Civile, rimasta come la polvere sotto i tappeti per oltre cinquant’anni. La ricostruzione della storia dei vinti ha riaperto antiche ferite politiche e psicologiche mai cicatrizzate e rimaste per decenni nella penombra dell’oblio e dell’astio trattenuto. Anche in questo caso, salvo rari esempi di serena rilettura degli accadimenti, il pendolo è oscillato dall’altra parte, riproducendo partigianerie, visioni monodirezionali, ricostruzioni contaminate dalla voglia, passione e ambizione di raccontare finalmente “l’altra storia”, quella vera con la V maiuscola.

Un disastro educativo e culturale insomma che può spiegare, ad avviso di Pickett, come mai siamo ancora “fermi lì” a confrontarci su una tragedia oggettiva quale è sempre una Guerra Civile per un paese. Un momento storico che taglia in due non solo la nazione ma anche le famiglie, i cittadini. Costringe i padri a imbracciare i fucili contro i figli e viceversa. I fratelli contro i fratelli, le generazioni contro le generazioni. Una catastrofe umana e psicologica che assume spesso toni feroci ed efferati che, non solo in Italia, necessita e ha necessitato di decenni per essere metabolizzata, compresa, ricostruita e riletta senza lo stomaco dell’attualità o il tifo di parte di una curva da stadio.

Come giustamente ha scritto Gianni Oliva in un suo testo su quel periodo storico, un conto è parlare del progetto politico “a monte”, quello che divide le parti in campo. Su questo punto non ci devono essere né i SE né i MA. Non ci devono essere dubbi su quelli che scelsero la parte giusta e non quella sbagliata delle efferate dittature nazi-fasciste. Diverso è invece il ragionamento che affronta le difficili scelte personali di quegli esseri umani che in quei mesi dovettero decidere da che parte stare. In quel momento giocarono, ad avviso di Pickett, fattori diversi, anche banalmente geografici nel senso del dove si trovavano gli italiani in quei mesi del ’43-’44. Al sud il problema non si pose in quanto il territorio era già stato occupato dagli alleati. Il problema si concentrò quindi al nord dove, per le ragioni più svariate, gli uomini e le donne furono costretti a schierarsi. Molti stettero “alla finestra” conseguenza questa del “tutti a casa” ben sintetizzato nel famoso film di Monicelli. Quelli che andarono in montagna, pochi per la verità soprattutto fino ad almeno la metà del 1944, capirono subito che la parte giusta era quella che combatteva il nazi-fascismo in ogni dove. Quelli che scelsero invece di andare a Salò lo fecero per i motivi più svariati come si ricava dalle loro stesse testimonianze rese nel dopoguerra. Ci furono i fanatici fascisti convinti del loro progetto politico; ci furono i giovani ventenni che reagirono in quel modo alla vergognosa gestione dell’armistizio del settembre del ’43, ci furono quelli che pensarono, in buona fede, che l’onore dell’Italia bisognasse difenderlo mantenendo la parola data all’alleato tedesco. Insomma un crogiuolo di sentimenti, decisioni, pensieri difficilmente razionalizzabile soprattutto a distanza di anni e lontani dal tragico contesto sociale ed economico di quell’estate del ’43.

Detto ciò Pickett crede che dopo sette decenni da tali avvenimenti la nostra responsabilità dovrebbe essere duplice: da un lato fare in modo che quella data del 25 aprile del 1945 non sia più contaminata dalla politica o dagli scenari internazionali: rimanga per sempre una data fondamentale per il nostro paese nella riconquista della libertà e della democrazia. Bisogna continuare a conservare infatti la memoria di coloro che diedero la vita per la libertà di noi tutti. Dall’altro lato dobbiamo tutti costringerci ad una più serena rilettura di quel periodo. Non condizionati dal doverci schierare da una parte o dall’altra, ma nel doverci porre nella condizione di capire meglio cosa successe e perché. E questo noi lo dobbiamo soprattutto alle nuove generazioni quando ci chiedono notizie dei loro nonni o bisnonni e del perché delle loro scelte in quella difficilissima situazione. Non bisogna dimenticare ma neanche arroccarsi su contrapposizioni che non hanno più senso e che non aiutano a comprendere veramente quel contesto storico e politico.

Vittorio Foa ci ha regalato tra le tante e bellissime testimonianze, non solo politiche, della sua intensa vita di anti-fascista, alcune pagine indimenticabili sulla Resistenza e sulla Liberazione. Pagine vere, anche rudi. Mai mirate a nascondere però la polvere sotto i tappeti. Non per questo non dense di emozioni e di grandi speranze legate proprio a quello che rappresentò per quelle generazioni il 25 aprile del 1945. Un simbolo quindi che non solo dobbiamo mantenere vivo nei nostri cuori ma che dobbiamo eleggere a momento di ricostruzione morale di una nazione ancora troppo giovane ma doverosamente in grado di guardare il futuro senza dimenticarsi il proprio passato per quanto controverso possa essere e per quanto possa non piacere a tutti.

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