L’angosciante ripetersi di episodi di intolleranza all’accoglienza – ancora oggi quello di Abano Terme – obbligano Pickett a tornare sull’argomento. Ci stiamo giocando la nostra convivenza civile quasi senza accorgercene: il tema è troppo importante per essere relegato alla cronaca dei media nazionali.

E allora ripartiamo da una lettera scritta da un settantenne di Ascoli Piceno traumatizzato dalle immagini televisive del rifiuto della comunità di Gorino, in Veneto, all’accoglienza di alcune profughe africane con i loro bambini appresso. Una testimonianza accorata, commovente, di un’infinita tristezza. Una fotografia di chi siamo veramente noi italiani, per la nostra storia, le nostre radici, le nostre vicende familiari di eredi di emigrati.

Leggiamola insieme questa lettera a Michele Serra e riprendiamo il filo del discorso dopo averla metabolizzata bene.

Caro Michele, troppo in fretta si dimentica. Troppo e tutto. Un Paese senza memoria è un Paese perduto. Ho assistito nei vari telegiornali alla vicenda di Gorino. Ho visto dei vecchi come me che si agitavano molto per esporre i motivi del rifiuto posto nei confronti di quelle povere disgraziate e di quella manciata di bimbi. Mi sono solo chiesto se quelle persone ricordano dove sono state trasferite, o dove sono state trasferite le loro mamme, quando la piena del Po nel novembre del 1951 fece strage nel Delta, cancellando dalla faccia della terra interi paesi e frazioni. Ricordo ancora i nomi di alcune località che venivano citate dai giornali: Goro, Codigoro, Gorino.

Ebbene qui ad Ascoli vennero inviati circa 1.500 sfollati provenienti da quelle zone: erano quasi esclusivamente donne, bambini e vecchi che vennero ospitati non in strutture, ostelli e alberghi (e chi te li dava, nel 1951?), ma nelle case private. La Chiesa ebbe grande merito di quest’operazione umanitaria. Le scuole si riempirono fino all’inverosimile, perché i ragazzi vennero a frequentare le nostre già numerose classi, portando il numero degli alunni fino a quaranta, quarantacinque. Tra l’altro non capivano niente, parlavano proprio un’altra lingua. Avevo sette anni, ero piccolo, e il ricordo più chiaro che ho è di queste donne tutte vestite di nero, coni fazzoletti neri in testa, e i ragazzi anche loro vestiti di nero e con il berretto in testa. Era il dopoguerra in una città che aveva avuto l’occupazione dei tedeschi, degli americani, dei polacchi, degli inglesi. Erano tempi durissimi, dove molti veramente non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena. Ebbene dove si viveva in otto si visse in dodici, dividendo quel poco che c’era. Quando rinnovo questi ricordi mi commuovo. Per questo ho rimosso quasi tutta la mia infanzia. Non reggo. E’ una mia fragilità. In questo momento sto piangendo come un vecchio. Il dopoguerra è stato duro. Michele, tu sei più giovane, non lo hai provato. La nostra era una famiglia borghese, vivevamo in una palazzina di tre piani. Una famiglia patriarcale, eravamo in otto, con nonna, zia, cugine e badante della nonna. Papà faceva il commercialista. Ma era dura anche per noi. Ti garantisco. Allora, poiché sono anche un pochino malefico, avrei voluto chiedere a quei vecchi, molto semplicemente, dove erano stati sfollati quando è toccato a loro; e se per caso avessero dovuto oltrepassare blocchi stradali posti da coloro che avrebbero dovuto accoglierli.

Ascoli, 4.11.2016

Serafino Costantini

Cosa aggiungere? Non dobbiamo abbandonarci né al cinismo egoistico di chi non lo ritenga un problema suo né alla sottovalutazione di questo dilagante malessere che esiste non solo nel nostro Paese.

Torniamo al nostro quesito: si può coniugare Legalità con Solidarietà e Sostenibilità? Ciascuno di noi, ad ogni livello, incominci a pensare concretamente a dare una risposta a questo interrogativo. Non sul Se ma sul Come, a mio avviso.

Parliamone.

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