Il 3 Novembre ultimo scorso, la High Court del Regno Unito ha emanato un’attesissima decisione che ci riporta al dibattito sulla Brexit.

La Corte si è espressa,  in punto di diritto costituzionale, sull’esistenza o meno della titolarità in capo al Governo del potere di attivare la procedura prevista dall’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), volta a regolare l’uscita di uno Stato membro dall’Unione. La questione è stata risolta a favore della sovranità di Westminster: il Governo non può prendere una decisione autonoma in materia, ma deve necessariamente passare attraverso il voto del Parlamento.

Sulle colonne di questo magazine si erano anticipate molte delle questioni giuridiche e politiche che sarebbe stato necessario affrontare, all’indomani del voto. I giudici hanno così avuto modo di far luce sui rapporti tra fonti, sulla natura stratificata del common law e sulle tensioni dialettiche tra diritto e opportunità politica. Ma andiamo con ordine.

La Corte ha dovuto anzitutto inquadrare la questione all’interno del sistema di pesi e contrappesi dell’ordinamento inglese. Come si diceva, i giudici sono stati investiti di una questione di carattere costituzionale, direttamente inerente i rapporti esistenti tra Corona e Parlamento.

Il tema è affascinante ed evocativo e ha le sue radici negli inizi dell’esperienza democratica moderna, che proprio a Londra l’Occidente deve. In una fase più risalente, la sovranità si concentrava interamente in capo al Re; successivamente, e come conseguenza delle aspre lotte del ‘600 tra Re e nobili, si sono iniziate a distinguere differenti prerogative e, soprattutto, si è iniziato ad affermare che il Re non tutto potesse, ma che fosse sovrano all’interno delle sue prerogative. Basti pensare alla “battaglia” politica, ideologica ma anche giuridica condotta da Sir Edward Coke e alla sua storica affermazione “The King is subject to God and the Law”. La tensione, qui riassunta in maniera estremamente succinta, ha poi portato alla monarchia costituzionale e al trasferimento al Governo di quelle prerogative che la tradizione riservava alla Corona.

Questo breve quadro ci aiuta a capire l’argomentare della High Court, che ribadisce la centralità del Parlamento e sottolinea come le competenze della Corona (dell’Esecutivo, diremmo, mutatis mutandis) si ritaglino in negativo rispetto al “potere di fare e disfare le leggi”.

Posto l’accento sulla preminenza del Parlamento circa le leggi dello Stato, è appena il caso di notare quanto l’ eventuale Brexit impatterebbe sulla legislazione dei cittadini d’Oltremanica. Dal 1973, anno di entrata degli UK nell’allora Comunità Europea, in maniera sempre crescente le regole giuridiche volte a indirizzare la vita dei sudditi della Regina sono fortemente condizionate dall’agone politica che si tiene a Bruxelles e Strasburgo. Infatti, il diritto dell’Unione detiene il primato su quello nazionale, nelle materie riservate alla sua competenza, e i giudici nazionali sono tenuti ad applicarlo direttamente. Insomma, la Brexit è solo difficilmente immaginabile, nella sua dimensione pratica: i vuoti normativi sarebbero vastissimi e seguirebbe un’intensa attività legislativa della House of Commons. La stessa valutazione d’opportunità sul processo di abrogazione dei Trattati è, dunque, riservata al Parlamento, per decisione della Corte.

I giudici in più passaggi insistono sul fatto che la sentenza riguardi esclusivamente la questione giuridica posta, in nessun modo volendo sconfinare nel dibattito politico. Si potrebbe considerare, forse un po’ malignamente, che questa stessa precisazione ripetuta ponga dei dubbi sull’impermeabilità del diritto alla politica. Senza dubitare della buona fede della Corte, infatti, è arduo ritagliare i confini tra i due, nella questione Brexit più che in altre circostanze.

Per capire il contesto che fa da sfondo alla decisione, basti pensare che la consultazione referendaria è stata preceduta da una durissima campagna elettorale e, come spesso accade su questioni così divisive, il voto non è stato un momento di conciliazione, ma di “conta” tra schieramenti. Il clima post-voto lo dimostra: le leadership di ogni partito o quasi sono state azzerate, si sono registrati momenti di tensione tra la popolazione e la sentenza della Corte è stata accolta da messaggi minacciosi apparsi su alcuni tabloid britannici (Il Daily Mail ha messo in prima pagina le foto dei tre giudici che hanno deciso la questione, titolando “Nemici del popolo”).

Sembra di assistere ad una premonizione di quanto potrebbe accadere al di là dell’Oceano, negli USA, dopo le elezioni dell’8 Novembre. Tale è la spaccatura nel Paese che il giorno dopo il voto una consistente parte dell’elettorato farà fatica ad accettare il risultato del processo democratico.

A tal proposito e in conclusione, si può cercare di leggere nelle parole della High Court un tentativo di ricordarci il complesso significato di democrazia. La corte si rifiuta di fermarsi al mero atto del voto referendario (che, è bene non dimenticarlo, si sapeva esser consultivo sin da principio), ma lo colloca in un contesto più ampio. Lo rispetta, ma si concentra sull’elaborato sistema politico-giuridico (eccolo, di nuovo, il rapporto dinamico tra i due), che il Regno Unito ha messo a punto nei secoli e che serve a riempire di significato l’espressione elettorale e a gestire la complessità.

Dire “no” all’Unione Europea significa (forse) poco. Come lo si dice, questo sì richiede scelte politiche (Parlamento) e valutazioni giuridiche (circuito delle Corti). Queste due cose, insieme, fanno parte della democrazia nel suo senso più pieno.

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