Alcune tra le più recenti vicende di cronaca in tema di cyber-sex, cyber-ricatti, cyber-bullismo (insomma, tutto quel che riguarda la Rete ed un suo uso distorto ed illecito) hanno riacceso i riflettori su un tema ormai ricorrente: Internet ed il suo lato più pericoloso. I casi sono ormai più che conosciuti dall’opinione pubblica.
Tiziana Cantone nel maggio del 2015 si presenta in Procura per una denuncia. Alcuni video hard che la riguardavano – ripresi con il suo consenso – erano stati diffusi prima su Whatsapp tra una ristretta cerchia di amici, poi su social e siti internet di ogni genere. Il tentativo di lasciarsi tutto alle spalle, di far rimuovere i contenuti dal Web, il cambio del cognome per cercare di separarsi da quella pesante eredità non sono bastati: dopo mesi di tormento ed un tentativo sventato dai famigliari, si toglie la vita.
Una ragazza di 17 anni, durante una serata in discoteca a Rimini – ubriaca e, forse, sotto l’effetto di stupefacenti – viene portata in bagno da un ragazzo di 22 anni che abusa di lei. Le amiche che la raggiungono, tra effetti dell’alcol, un filo di ignoranza di cosa stia accadendo e tanta superficialità, non intervengono e una di loro decide di riprendere la scena con il suo smartphone, facendo poi circolare il video tra un gruppo di amici. In questo caso il video non diventa di pubblico dominio, anche se il comportamento delle amiche è forse ancora più preoccupante di quello riscontrabile in casi simili.
Le reazioni a questi eventi di cronaca che talvolta sfociano in esiti drammatici, come per Tiziana Cantone, sono le più varie e spaziano da chi, cinicamente, non nasconde la responsabilità dei soggetti che coscientemente si fanno riprendere in situazioni intime – accettando il rischio di una diffusione – a chi, in maniera più pacata, giustifica le vittime ed il loro diritto di compiere ogni tipo di attività nel privato, condannando invece gli “aguzzini” che scelgono unilateralmente di condividere con il mondo digitale le prove di quelle azioni. Una situazione che ipoteticamente può riguardare ogni persona e la sua identità digitale, laddove la pubblicazione di dati sensibili senza il consenso dell’interessato è una delle principali attività in grado di rovinare una reputazione; anche quando questi dati dovessero poi rivelarsi falsi (pensiamo al caso di Attilio Solinas, ricattato sul Web, che ha visto condividere su Facebook un finto video pedopornografico che lo vedeva protagonista).
L’unica certezza, in questo contesto, è che “cercare colpevoli e compiangere vittime” – come ha ricordato Gianluca Nicoletti su La Stampa – è inutile, mentre è necessario imparare a gestire le nostre “protesi emotive”, con qualcuno che ce lo insegni. Da anni R&P Mag evidenzia il bisogno crescente di un’educazione digitale che istruisca soprattutto i più giovani a come gestire il proprio rapporto con la Rete ed i social; agire quando il caso è già scoppiato e la reputazione rovinata, è inutile. Su questa base Nicoletti ipotizza provocatoriamente (ma non troppo) l’introduzione di una nuova materia di studio, l’“Ingegneria Relazionale”. Per tutti, dai 9 ai 90 anni: un corso multidisciplinare mirato ad impartire lezioni teoriche e pratiche sulla gestione di una nuova socialità.
R&P Mag non può che accogliere con entusiasmo una simile proposta, che sente anche un po’ sua, pensando in questo caso, con un format diverso dal solito, di affrontare il tema coinvolgendo sentendo le voci interne allo Studio, valutandone sensazioni, reazioni e proposte.
Le opinioni sono distanti tra loro e si scontrano sui metodi utilizzabili per limitare i danni portati dall’uso del Web. Tuttavia dal dialogo è emerso – con una costanza che deve far riflettere – un dato condiviso: se qualche anno fa il giudizio sulla Rete era certamente indirizzato verso il concetto di “opportunità”, oggi sta drasticamente virando verso quello di “pericolo potenziale”. E questo anche per chi ne riconosce grandi pregi all’interno della società attuale.
Senza bisogno di fare nomi e cognomi, dato che queste poche righe sono il frutto di un confronto interno tanto sincero quanto, in alcuni frangenti, acceso a causa delle diversità di vedute, possiamo dire che età, sesso e condizione sociale (si intende, avere una famiglia o vivere da soli, avere dei figli o meno) non creano dei gruppi omogenei nei quali le opinioni possano dirsi uniformi.
Partendo dal tema principale di questo articolo – l’educazione digitale, o “ingegneria relazionale” – il giudizio sulla sua utilità è tutto fuorché condiviso. E questo perché il ruolo della famiglia continua ad essere visto come preponderante nella crescita emotiva, caratteriale ed educativa di un giovane, mentre la fiducia nelle capacità della scuola di imprimere un segno rilevante è davvero ai minimi. Se qualcuno (in maniera isolata) è più ottimista; se i più si aggrappano al “meglio che niente”, in qualche modo appoggiando la possibilità di uno specifico corso sulla gestione della propria identità digitale; c’è anche chi ne sostiene non solo la completa inutilità, ma anche il rischio di effetti controproducenti. Mettere 20 o più ragazzi in un’aula a discutere di digitale, bullismo ed uso corretto della Rete potrebbe, in sostanza, esporre i più deboli a comportamenti vessatori di coetanei che non prenderebbero sul serio il tema degli incontri. Un po’ come già accade con l’educazione sessuale che molto raramente mantiene un’aura di serietà e molto frequentemente sfocia nell’ironia e nello scherno.
L’argomento non riguarda, però, solo i più giovani, come dimostra il caso di Tiziana Cantone, 31 anni. E qui il tema si fa ancora più complesso perché se è possibile imporre – per quanto, si è visto, non ci sia comunione di intenti – un’educazione digitale a livello di istruzione obbligatoria, certo non lo si può fare con chi il percorso scolastico l’ha ormai chiuso. Non è un problema da poco, considerando che si tratta di persone che avranno a che fare con la Rete per tutta la vita, per un lasso di tempo in cui il peso e l’invadenza di Internet potrebbero aumentare a dismisura. L’hackeraggio del telefono della giornalista di Sky Diletta Leotta, a pochi giorni dal funerale della Cantone, dà il polso di quanto le violazioni siano ormai quotidiane. E nei confronti degli adulti, si fa fatica a trovare qualcuno che sostenga l’utilità di un intervento pubblico: il carattere è formato e non si può più prevenire, secondo l’opinione più comune.
Tuttavia, non è solo lo Stato ad avere un margine di intervento. “Ai tempi del telefono furono le società telefoniche a investire molto per educare i propri utenti; ora è il turno dei giganti del Web di fare la loro parte”. È questa la tesi di Juan Carlos De Martin – docente al Politecnico di Torino ed esperto di nuove tecnologie – che paragona gli effetti di Internet e quelli che ha avuto l’avvento della telefonia nel mondo. Ai Big della Rete “non dobbiamo chiedere di sviluppare improbabili algoritmi anti-odio, ma di progettare e realizzare una ambiziosa, pluriennale azione educativa”. Per evitare, o almeno ridurre, gli episodi di cui oggi ci troviamo a discutere animatamente.
In un quadro così grigio, non manca chi trova uno spiraglio di luce per il futuro – almeno per quel che riguarda i più giovani – vedendo la causa principale di tutte queste violazioni non in una generazione alla deriva, ma nell’incapacità dei genitori di gestire l’irruzione del Web. Non erano preparati, non lo erano rispetto a loro, non potevano esserlo rispetto ai figli. E questo emerge non solo dai ricorrenti casi di cronaca, ma anche dal fatto che sempre più genitori ammettono che l’unica possibilità sia ricorrere a misure drastiche: il controllo totale sui devices e sui profili social dei figli, accantonando almeno temporaneamente il diritto alla riservatezza dei più giovani. Opinione diffusa anche tra le Forze dell’Ordine, vista l’intervista a Lisa Di Berardino (vicequestore aggiunto della Polizia postale di Milano): all’obiezione del figlio in punto privacy, pare abbia risposto con un secco “noi non siamo alla pari”.
La prossima generazione di genitori sarà composta da nativi digitali che avranno vissuto i casi di cronaca di cui oggi tanto si discute e, forse, avranno provato sulla propria pelle gli effetti di un uso distorto della Rete. Per i figli dei prossimi anni, quindi, prevale la vena ottimista. Per gli abitanti di oggi del Web, invece, bisogna rilevare una forte negatività e una sensazione di crescente impotenza rispetto agli abusi digitali. Una situazione, però, che non deriva dal “male intrinseco” portato dalla Rete. Il regista Werner Herzog (è in uscita la sua ultima opera proprio su questo argomento) ha sottolineato brillantemente come “buono o cattivo sono categorie per gli umani. Nessuno si chiederebbe se l’elettricità è cattiva, tranne nel momento in cui si trovasse seduto sulla sedia elettrica”. Il problema sta, dunque, nel modo in cui noi tutti usiamo l’elettricità e la Rete.
Il ddl “bullismo e cyberbullismo” approvato in questi giorni alla Camera va nella direzione giusta, non tanto per i contenuti (condivisibili o meno), quanto per il tanto atteso intervento legislativo su un tema ormai quotidiano. Vedremo se sarà l’inizio di un serio percorso di coinvolgimento delle istituzioni, sperando che non si tratti di una reazione estemporanea alle istanze dell’opinione pubblica.
Riccardo Rossotto
(ha collaborato Nicola Berardi)