Alzare muri o costruire ponti? Chiudersi in sé stessi o aprirsi agli Altri? Avevamo esordito, all’inaugurazione di questo blog, oltre 18 mesi orsono, scrivendo che Pickett avrebbe ospitato sempre contributi mirati all’inclusione e non all’esclusione. Una sfida in un momento buio nelle relazioni sociali e umanitaria della vecchia e rattrappita Europa e dei nuovi “barbari” provenienti dalle zone povere del nostro emisfero.

Abbiamo letto, sentito, partecipato a numerosi dibattiti sui temi dell’immigrazione e delle politiche che bisognerebbe adottare per cercare di coniugare lucidamente e non velleitariamente solidarietà con sicurezza, accoglienza con sostenibilità. Sono passati mesi e, anche se egoisticamente potremmo dire che il fenomeno è arginato e gli sbarchi sono diminuiti sensibilmente, il tema continua ad essere aperto, non condiviso, anzi elemento di scontro in campagna elettorale ovunque le elezioni si tengano. Con risultati che dimostrano che oggi paura, angoscia e chiusura intellettuale ed economica premino ampiamente i cantori della realizzazione di muri e non certo della costruzione di ponti.

La Cina, gli Stati Uniti e l’Ungheria ne costituiscono tre esempi diversi ma sorti sulla stessa matrice ideologica.

A Pechino, il governo ha avviato l’esecuzione del progetto Social Credit, con sistema di controllo sui cittadini che evoca i film di fantascienza di stampo orwelliano. Il monitoraggio costante e dettagliato fa sì che il cittadino cinese viene valutato nei suoi comportamenti, nella sua onestà, nella sua produttività. E viene anche giudicato in modo tale da concedergli crediti che vogliono dire più servizi sociali, più sicurezza, più qualità della vita. Ma non è tutto. Proprio in queste ore abbiamo avuto notizia che si è avviato anche il Neuro Cap, il progetto parallelo che lo stato cinese sta promuovendo presso alcuni grande aziende pilota per misurare la produttività dei dipendenti.

Un apposito caschetto con un software incorporato legge, attraverso dei sensori-elettrodi, piazzati su alcuni punti chiave della corteccia celebrale del lavoratore, le reazioni emotive durante il suo processo produttivo. Siamo dunque ben oltre i braccialetti di Amazon: siamo al controllo permanente degli individui durante l’orario di lavoro. Attraverso quindi software sofisticati e obbligatori da utilizzare, il governo cinese sta costruendo un muro digitale dentro il quale controlla i “suoi” cittadini (e le aziende i propri dipendenti) premiandoli o penalizzandoli in funzione dei loro comportamenti. Anche delle loro opinioni? Non è dato sapere, per ora! Un muro digitale insomma che stringe i cordoni della vigilanza stroncando tutto quello che risulti anomalo, non gradito, contrario alla filosofia del regime.

Trump è diventato famoso anche per il progetto di costruzione della nuova “Muraglia” americana sui confini con il Messico. Ha voluto lanciare un messaggio preciso ai messicani, ma anche a tutto il mondo: l’America è cambiata. È meno ospitale, più attenta a sé stessa. Molto diversa da quell’American Dream costruito dai pionieri fondatori. Forse il muro tra gli Stati Uniti e il Messico non si farà mai, ma Trump ha voluto dar seguito alle sue promesse elettorali che lo avevano fatto sorprendentemente vincere contro la “inclusiva” Hillary Clinton: American First, gli altri “dopo” e “fuori” dai nostri confini.

L’ungherese Orban è il pupillo europeo del populismo xenofobo. A differenza dei “colleghi” francesi, tedeschi, olandesi e italiani, il presidente ungherese è al potere e lo esercita “secondo copione”. Ha promesso un muro, ha vinto le elezioni su quella promessa e lo ha immediatamente messo in costruzione.

Il nostro Salvini non è ancora al governo, ma continua a mietere successi elettorali promettendo il rimpatrio di oltre 600.000 immigrati giunti nel nostro paese.

Insomma, un quadro in rapido declino che secondo Ian Bremmer, politologo americano, presidente dell’Istituto Euro Asia Group, non può che peggiorare: “Il peggio della risposta al fallimento della globalizzazione, con l’ondata populista, deve ancora arrivare – scrive Bremmer – lo hanno dimostrato le elezioni del 4 marzo in Italia ma ancora di più l’instabilità che minaccia i grandi paesi emergenti, dove esiste un alto rischio di disordini e conflitti. Vedremo innalzare sempre più muri, fisici e virtuali, e il clima globale peggiorerà, prima di migliorare. Ammesso che i leader pubblici e privati capiscano la portata del disagio e cerchino di risolvere i problemi da cui nasce”.

Lo scrittore americano ha pubblicato di recente il suo ultimo libro, proprio su questo tema, “US vs THEM”, in cui prevede un futuro a breve per l’umanità ricco di conflitti sociali con rischi anche di natura militare: “Questo libro è il più allarmante che io abbia mai scritto. Però l’ho concepito come un campanello d’allarme che era necessario suonare”.

Già proprio come il Pickett – Cassandra di circa 18 mesi fa!

Intervistato da Paolo Mastrovilli su La Stampa, Bremmer si è dilungato sui paesi emergenti dove il rischio rivoluzione anti sistema è secondo lui ancora più alto “Dei quattro trend che hanno provocato la ribellione anti globalista – ha detto Bremmer – e cioè liberi commerci, confini aperti, sicurezza e tecnologia, quest’ultimo è il più trasformativo. Questi paesi si sono giovati molto della globalizzazione perché offrivano lavoro a buon mercato, ma ora l’automazione consente di rimpiazzarlo. La classe media rischia di essere distrutta e la reazione sarà più dura perché questi stati non hanno reti protettive. La tecnologica sarà quindi lo strumento di questo caos rivoluzionario prospettico”.

Bremmer è molto critico sulla globalizzazione selvaggia, la madre di tutte le cause dell’attuale malessere: “La situazione peggiorerà prima di migliorare, perché molti non riconoscono l’emergenza. Non basta che Trump perda o la Brexit sia frenata, perché i problemi strutturali dei loro elettori restano. Vedremo esperimenti come il lavoro temporaneo, il training universale, Ceo e filantropi con le loro iniziative. Per una soluzione di lungo termine però serve la mobilitazione di governi e siamo molto lontani dal trovarla”.

La ricetta, Bremmer, la fornisce in un capitolo del suo libro dedicato alla speranza di una inversione di rotta: “Sono quattro i punti sui quali intervenire – scrive il politologo americano – il free training è una buona idea ma se non aiuti i disoccupati, loro si opporranno; trattati commerciali come il TPP (Trans – Pacific – Partnership) sono utili, ma devi sostenere i lavoratori che ci perdono. I governi devono investire in infrastrutture, istruzione, sanità, lotta alla droga. Vogliamo attirare elementi migliori, ma se l’americano o l’europeo medio percepisce l’immigrazione come una minaccia per la sua sicurezza e identità, sarà contrario. Bisogna affrontare insieme tutti questi problemi con una strategia di lungo termine”.

Da dove possiamo ricominciare? “Bisogna iniziare dal livello locale, con i politici che la gente vede e conosce, coinvolgendo le comunità, le università e il settore privato, i Ceo delle aziende che vogliono conservare i loro dipendenti, i filantropi. Piccoli governi tipo Singapore faranno esperimenti utili, ma per i grandi paesi come gli Usa o l’Italia ci vorrà tempo perché non conosciamo la soluzione. In ogni caso il capitalismo va ripensato”.

Us vs Them”  è un libro forte che colpisce nel segno. Non buttiamo via gli ultimi campanelli d’allarme che ci suonano intorno. Cogliamo il punto centrale del problema: riflettiamoci sopra. Crescita, redistribuzione dei redditi, lavoro, solidarietà verso i meno fortunati sono temi – obiettivi la cui realizzazione dipende da Noi … non da altri.

 

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