Pickett ha sempre vissuto le innovazioni originate dal rutilante mondo dell’Intelligenza Artificiale con un misto di fascino e di preoccupazione. Con un entusiasmo trattenuto da un “freno a mano” tirato. Molte suggestioni derivanti dalla possibilità di cambiare in meglio la nostra vita di lavoro ma anche di relazione. Molti incubi per le conseguenze in termini sociali e occupazionali ma soprattutto in termini di possibile persistenza della centralità dell’essere umano rispetto alla macchina.

Il vedersi di fronte scenari e contesti di vita, d’altronde già anticipati dalla cinematografia della fantascienza, in cui i robot non solo avevano conquistato posti di lavoro importanti nel modello di business degli umani ma, e qui sta il vero incubo angosciante, avevano assunto un ruolo di decisori di “come va il mondo”, lascia inquieti, preoccupati al limite dell’essere terrorizzati. Infatti in questi sogni che stanno diventando realtà, le macchine non rispondono più soltanto alle istruzioni del software che li aveva partoriti ma vanno oltre. Rispondono ad una propria decisione autonoma, maturata ed elaborata attraverso le esperienze fatte che gli hanno permesso di avere una propria implementazione del perimetro d’azione originario con una parte nuova, autonoma e discrezionale, che va oltre la volontà primitiva degli umani che avevano scritto il protocollo del loro software originario.

Insomma uno scenario in cui le macchine diventano soggetti e non semplicemente oggetti nelle mani degli umani.

Chi segue Pickett si può ricordare un contributo di qualche anno fa in cui raccontammo il contenuto di due video “figli” della sperimentazione dell’Intelligenza Artificiale nei laboratori dell’ università americana di Harward.

Si vedevano prima un robot ranger che operava in un parco nazionale americano e poi un robot magazziniere che operava in uno stabilimento industriale. Entrambi eseguivano certe operazioni nell’ambito delle istruzioni informatiche ricevute con il software originario, ma poi, entrambi, implementavano via via i loro comportamenti aggiungendo a quelli voluti e scritti dall’essere umano dei comportamenti nuovi, scelti da loro autonomamente, dando vita a situazioni impreviste ed imprevedibili, anche contrarie a quelle volute dai loro costruttori/mentori.

Insomma, un dilemma angosciante che è insito in questa rivoluzione tecnologica che rischia però di avere un fortissimo impatto sulla nostra vita quotidiana e sulle nostre esistenze.

Dobbiamo confessarvi che al di là della battuta “un entusiasmo con il freno a mano tirato” ogni tanto siamo portati a pensare che in fondo non ci dispiace poi tanto non vederci protagonisti di quel mondo del futuro in cui il rischio che le macchine diventino padroni del mondo schiavizzando gli umani potrebbe diventare davvero concreto.

Un triste e melanconico stato d’animo che però ci deve far riflettere su come gestire questo progresso tecnologico forse inarrestabile in cui gli umani non devono però arrendersi ad un ruolo passivo ma devono cercare, a nostro avviso, di mantenere la centralità e decisività del loro pensiero.

Una bella sfida tutta da giocare e da non sottostimare.

Un “tranquillante/farmaco psicologico” per calmare queste inquietudini prospettiche ci deriva spesso da questo tipo di ragionamento: il progresso tecnologico non riuscirà comunque a realizzare delle macchine/robot in possesso dell’emotività, della coscienza, di quelle caratteristiche psicologiche insomma che caratterizzano e distinguono l’essere umano dagli animali e dal mondo della tecnologia.

In questo contesto di vissuto preoccupante e preoccupato sulla rivoluzione in atto è giunta, come un fulmine… non proprio a ciel sereno, la notizia che uno dei grandi padri della rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale, il prof. Minoru Asada, direttore della divisione di robotica e neuroscienze cognitive dell’Università di Osaka, in Giappone, sta completando gli studi per la realizzazione del primo “robot cognitivo”.

Il cattedratico giapponese inventore del “CB2” il bambino androide dotato di corpo biomimetico in silicone e di “Affetto”, il robot dotato di espressioni facciali molto realistiche per trasmettere le “emozioni” provate dalla macchina, è in questi giorni in Italia per partecipare al Festival della Scienza in programma a Genova agli inizi di novembre.

In un’intervista a Giuliano Aluffi di Repubblica, il prof. Asada ha spiegato lo stato dell’arte delle sue ricerche in merito alla realizzazione di un robot cognitivo e cioè in possesso di un’emotività analoga a quella degli umani: in altre parole che sta realizzando proprio quel robot che noi, esseri umani normali, pensavamo non fosse possibile neanche immaginare. L’incubo si sta dunque concretizzando.

Ma sentiamo che cosa ha raccontato il prof. Asada al giornalista italiano.

L’idea di fondo – ha detto Asada – è quella di ispirarci allo sviluppo dei bambini per costruire un robot in grado di scegliere acquisendo gradualmente competenze sempre più complesse. Sono sia l’interazione fisica del robot con il suo ambiente, sia quella sociale con gli esseri umani che consentono al robot di dare una struttura alle informazioni che raccoglie con i suoi sensori. Chi oggi programma i robot che acquistiamo per portarceli a casa, deve aver già codificato a monte ogni possibile situazione e il robot non fa altro che seguire il programma”

E invece il suo robot cognitivo?

“Invece il robot cognitivo – continua Asada – avrà la capacità di imparare e adattarsi a una certa casa e a una certa persona specifica senza seguire rigidamente istruzioni pre-esistenti.

C’è però un problema: lo sviluppo del bambino ha ancora molti aspetti enigmatici e questo ci complica la costruzione di un robot-bambino, ma dall’altro la rende ancora più preziosa. Possiamo indagare più a fondo sullo sviluppo umano attraverso una macchina che offre risultati riproducibili e un livello di controllo totale”.

Costruire i robot per capire i bambini ed usare di conseguenza questa conoscenza per costruire robot ancora più umani dunque:

 “Sì, consideriamo, ad esempio il fenomeno dei neuroni-specchio ovvero quei neuroni motori che si attivano sia quando compiamo un’azione che quando vediamo altri compierla. La loro origine è misteriosa. I robot possono dunque aiutarci a spiegarla come un effetto dello sviluppo del sistema visivo. Prendiamo un robot-bambino dotato di una bassa risoluzione visiva: quando davanti a sé vedrà del movimento, non farà differenza tra le sue azioni, come passarsi una mano davanti al volto, e l’azione di uno scienziato che passi una mano davanti al volto del robot. Assocerà entrambi gli eventi ad un unico comando motorio. Se il robot cresce, ovvero se migliorano le sue capacità, compresa la visiva, sarà in grado di differenziare visivamente le sue azioni e quelle degli altri. Ma il comando motorio, per via del modo indifferenziato in cui il robot lo aveva appreso nella sua infanzia, si attiverà ancora allo stesso modo sia quando il robot muove la sua mano che quando vede muoversi la mano altrui. Proprio come avviene con i neuroni-specchio. Anche nei bambini si ha in questo modo un affinamento progressivo della vista. In questo modo la robotica ci fornisce una soluzione ad un mistero dello sviluppo umano”

Il prof. Asada spiega poi a cosa servano i Robot Affettivi: “in paesi come il Giappone e l’Italia con una età media avanzata sarà sempre più necessario avere dei robot badanti. Per compiti così delicati è importante che il robot sappia riconoscere le emozioni degli umani di cui ha la gestione. E fornire un supporto non solo fisico ma anche affettivo”.

La notizia “fatale” arriva però alla fine dell’intervista al professore giapponese. Quando Aluffi gli chiede se quindi il progetto fantascientifico di robot emotivi si potrebbe realizzare, Asada risponde con grande sicurezza e apparente serenità “Certo, attraverso l’interazione con l’uomo. Come avviene con i bambini: alla nascita i bambini hanno emozioni generiche, elementari. Non padroneggiano ancora le espressioni. Quando il bambino interagisce con il genitore e, per esempio, piange quando ha male al pancino, il genitore lo consola facendo una faccia dispiaciuta. Il bambino impara di conseguenza ad associare quell’espressione intristita al suo dolore. La prossima volta che non si sentirà bene, il bimbo farà propria l’espressione che ha appreso. Allo stesso modo potremo costruire robot che apprendono le emozioni e provano a riprodurle quando ciò è appropriato”.

La scienza è arrivata a questo punto di evoluzione: Pickett lascia a ciascuno di voi la valutazione sui “Se” e “Come” sia necessario studiare delle “regole del gioco” che permettano di arginare, gestendola, questa rivoluzione. Possiamo anche, noi umani, lasciarla liberamente nelle mani degli scienziati, cercando di valorizzarne l’innovazione.

Pickett, sul punto, è decisamente conservatore, o meglio, prudente.

Siamo di fronte ad una rivoluzione che deve essere, non ci stancheremo mai di ripeterlo, dominata e gestita: non bloccata ma monitorata e “guidata” dagli umani.

Guai a limitarci a subirla.

Potremmo in tal modo decretare ufficialmente il rischio dello stato di schiavitù delle prossime generazioni in mano al potere delle macchine.

Una bella responsabilità davvero.

 

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