La democrazia, si è sempre detto, è il governo del popolo. Obiezioni? Nessuna. Sorge spontanea una domanda banale: CHI È IL POPOLO DI PRECISO?

Lungo la storia della democrazia la risposta è stata molto restrittiva. Nella antica Atene donne e schiavi non furono mai considerati cittadini a pieno titolo, nemmeno gli immigrati e i loro discendenti avevano i requisiti per la cittadinanza.

La piena appartenenza alla polis era garantita solo a coloro che erano “nati dalla terra”, cioè a coloro che potevano ricostruire la genealogia paterna fino al pugno di persone che vivevano nella città all’epoca della fondazione.

Con il tempo mentre la città si ingrandiva e un numero crescente di immigrati si riversava nell’agorà, il concetto di popolo divenne ancora più ristretto. Fu Pericle a proporre una nuova legge che riconosceva i diritti di cittadinanza solo a coloro che avevano entrambi i genitori ateniesi. Alcuni individui famosi come Aristotele e Diogene non rispettavano questi criteri e non erano autorizzati a partecipare al governo della polis.

La repubblica romana fu più aperta. Gli schiavi liberati potevano diventare cittadini, i figli nati da matrimoni misti godevano di ampi diritti, anche agli abitanti di alcuni Stai alleati fu concessa una forma di cittadinanza. Tuttavia perfino in una città permissiva come Roma, le leggi di cittadinanza avevano lo scopo di creare una gerarchia rigida con i membri di una sola etnia al vertice e le persone considerate straniere sul gradino più basso, compresi i Latini che abitavano il Lazio ed erano etnicamente simili ai romani. Fu quando la Repubblica si trasformò in Impero che le regole di appartenenza divennero più inclusive.

Nel 212 d.C. l’editto di Caracalla concesse a tutti gli uomini liberi, residenti ovunque nell’Impero, gli stessi diritti dei romani. Ma non era più democrazia e i diritti avevano perso gran parte del loro significato.

Tutto ciò evidenzia una verità scomoda. Per un Re o un Imperatore è più facile accordare ai suoi sudditi lo status di cittadini pari tra loro, in fondo in una monarchia la cittadinanza non conferisce alcun vero potere.

Per una democrazia o una repubblica che si autogoverna è molto più difficile applicare con generosità le regole di appartenenza. In un sistema che permette al popolo di governare, chiunque ottenga lo status di cittadino può dire la sua sul futuro dei suoi compatrioti.

Pertanto, il fatto che l’Impero avesse adottato regole di appartenenza più generose di quelle della Repubblica, potrebbe forse suggerire che esiste una sorta di legame tra la democrazia e un concetto escludente della cittadinanza?

O per dirla più brutalmente, l’idea dell’autogoverno rende forse più difficile per un insieme eterogeneo di cittadini vivere gli uni a fianco agli altri come pari? Duemila anni di storia europea rendono piuttosto credibili queste domande.

Gli Imperi Asburgico e Ottomano, vissuti per secoli, prosperarono in parte perché sorretti dalla laboriosità e creatività di sudditi che pregavano in una grande varietà di modi e parlavano una varietà ancora maggiore di lingue. Fu nei moti insurrezionali del 1848 che emerse uno dei grandi dilemmi dello Stato e che ancora oggi interroga le Nazioni.

Le minoranze etniche e religiose avrebbero dovuto essere obbligate ad assimilarsi integralmente nell’ordine istituzionale, rimuovendo dalla sfera pubblica ogni senso di identità diverso da quello connesso al loro status di cittadini? Oppure lo Stato avrebbe dovuto basarsi sul pluralismo (multiculturalismo) in modo da consentire a tutti i gruppi particolari di esprimere pienamente il loro senso di separatezza, ma all’interno di un consenso di fondo concepito per garantire il reciproco rispetto e lo Stato diritto? La prima impostazione minaccia di calpestare le sensibilità religiose ed etniche; la seconda evoca lo spettro di un ordine civile frammentato.

Da questo dilemma prese corpo il nazionalismo, esploso nel Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, sotto forma, quasi sempre, di una ricerca di una purezza etnica, oltre che della democrazia.

Questo fu evidente quando cechi, slovacchi, ungheresi, insorsero contro l’Impero multietnico che li governava, affermando che se gli ungheresi, i cechi, gli slovacchi, dovevano governarsi da soli, solo i veri ungheresi, cechi, slovacchi, potevano essere autorizzati a partecipare alla vita politica della nazione.  Lo stesso impulso animava i nazionalisti liberali in Italia e Germania.

In Italia il popolo non era pronto per la democrazia perché la sua storia non era una storia nazionale basata sull’etnia e su qualche forma di autogoverno. Bensì una storia di separazioni faziose e partigiane. Il popolo non era italiano ma cittadino. Era una storia di famiglie: Visconti, Sforza, Este, Gonzaga, Medici, Farnese, Orsini, Savoia, Montefeltro, e a est Venezia e a sud gli spagnoli, tutti ruotanti, chi più chi meno, intorno al Papato che era oggetto di scambio fra le famiglie.

Questa giostra ebbe termine quando la penisola fu dominata da Napoleone e dopo di lui da famiglie straniere: i Borboni, gli Asburgo. Il popolo italiano non ha avuto modo di coltivare il nazionalismo perché tragicamente occupato a scannarsi al suo interno.

Le élite liberali che diedero vita al Risorgimento pur richiamandosi al patriottismo non emozionarono il popolo italiano che in gran parte rimase in disparte a guardare. Al sud poi molta parte del popolo fu dichiarata brigante.

Il nazionalismo italiano ebbe un sussulto dopo la prima guerra mondiale e in quel frangente si sarebbe potuto costituire il nucleo intorno al quale costruire una coscienza democratica nazionale, ma l’adolescenza della nostra democrazia precipitò nella dittatura. Il fascismo tentò la via etnica con le leggi razziali e con una propaganda tutta votata al nazionalismo e a rivendicazioni imperiali.

Fu un fallimento assoluto perché il popolo italiano, a parte le adunate di piazza, non sentiva l’orgoglio nazionale come parte integrante della sua storia. Le nazioni si formano su miti e vittorie condivisi di cui essere fieri e orgogliosi. Il popolo italiano poteva contare solo sulla storia recente e sulla vittoria di Vittorio Veneto. Ma si disse che quella vittoria era stata mutilata e non se ne fece nulla andandoci ad infilare in avventure isolate e con il resto del mondo contro. Come oggi.

Il fascismo tentò di solleticare l’orgoglio nazionale quando oppose un solenne: ME NE FREGO, alle sanzioni deliberate dalla Società delle Nazioni (come oggi). L’idea dello scontro Italia contro il resto del mondo (come fosse una partita di calcio) provocò la mobilitazione interna: si cominciò a raccogliere metalli utili per la causa bellica e il PNF diede vita alla campagna oro alla patria. Il 18 dicembre 1935 fu proclamata la giornata della fede e gli italiani furono chiamati a donare le proprie fedi nuziali (risparmio privato?). Ma anche in un frangente così solenne molti italiani consegnarono fedi di rame.

L’idea Italia contro il resto del mondo ci affascina sempre perché siamo il bullo del bar sotto casa.

Il popolo italiano in quanto tale non è si è mai costituito, è rimasto fazioso e di parte, la coscienza nazionale del popolo italiano ancora oggi mostra i segni delle antiche faziosità. Infatti, quando una fazione conquista il governo della nazione si comporta come un conquistatore operando solo a favore dei suoi clientes, trascurando la parte avversa e in qualche caso danneggiandola.

Il popolo italiano ha un rapporto con la Stato di grande conflittualità, lo Stato è un avversario, un nemico da combattere, per questo quando una parte conquista il potere lo esercita occupando e arraffando tutto quello che può e dice di farlo in nome del popolo, mentre in realtà lo fa solo in nome di una parte, quella alla quale ha strappato il consenso con la promessa che occupando lo Stato avrebbe operato in suo favore.

È bene chiarire una volta per tutte che la democrazia in Italia è il governo del popolo ma solo di quella parte di popolo che ha votato il governante di turno e quindi le politiche dell’attuale governo che dice di legiferare a favore del popolo sono politiche che favoriscono solo la parte di popolo che ha votato in suo favore. In altri termini stiamo vivendo un regime che si chiama dittatura della maggioranza che è l’anticamera delle democrature. Gli interessi generali non sono all’ordine del giorno.

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