Una delle angosce abbinate alla rivoluzione artificiale è quella del mondo del lavoro. A fronte del ragionevole certezza di una diminuzione di quote di lavoro per gli umani si è però insinuata una speranza. Per molti assolutamente velleitaria. Per altri invece sfidante. Come già in altre epoche della vita degli esseri umani, l’avvento di una rivoluzione tecnologica che ha permesso scarti di miglioramento di produttività e conseguenti risultati economici migliori, ci ha obbligati ad una reazione. Non solo ci siamo adattati alla novità, sfruttandone tutti i pregi e valori ma ne abbiamo approfittato per inventarci, con curiosità, creatività e impegno innovativo nuovi mestieri, nuove mansioni, nuove professioni. Insomma abbiamo ottimizzato la rivoluzione tecnologica (pensare alle macchine da stampa di Gutenberg, ai telai nel mondo del tessile agli inizi del 900, alle catene di montaggio nell’automotive o nell’industria manifatturiera in genere agli albori della rivoluzione industriale) anche dal punto di vista delle risorse necessarie per la sua gestione.

Già… ci sono volute curiosità (capacità cioè di osservare con cura e passione le novità tech) creatività (immaginare le conseguenze delle novità sul ciclo produttivo di tutta la filiera interessata) impegno innovativo (adattamento e non resistenza al cambiamento: voglia di nuovo e non pigrizia di addormentarsi sul vecchio e conosciuto modello). Qui sta, a nostro avviso, uno dei passaggi cruciali di questa nuova sfida. Almeno per cercare di coglierla e non arrendersi. Magari non per vincerla ma per affrontarla in modo costruttivo, proattivo e non solo di angosciata paura.

E per aiutare i nostri ragionamenti mirati al “come” reagire e non al “è finita: saremo presto tutti disoccupati!”, Pickett vi socializza due casi concreti. Due storie, un’americana e una italiana, addirittura torinese, che ci danno la benzina per pensare positivo. Non per crearci illusioni o panacee. Il problema esiste ed è complesso ma si può affrontarlo costruttivamente. In primis conoscendolo nel dettaglio e non accettando di limitarsi a slogan o a suggestioni comunicazionali. L’intelligenza artificiale si porta dietro macchine (i robot appunto) in grado di fare molti, non tutti, dei mestieri oggi svolti dagli umani. Come reagire inventandoci nuove mansioni che potrebbero rioccupare i nostri disoccupati o i giovani di domani, ancora più soli e disarmati nell’affrontare un mondo popolato da robot “produttivissimi” che non lasceranno loro spazi occupazionali rilevanti?

Leggete con attenzione queste due storie e poi confrontiamoci sul tema nelle nostre comunità di appartenenza. Qualche pensiero e qualche progetto potrebbero davvero nascere e contribuire ad un po’ di speranza per il nostro futuro.

Ho cenato l’altra sera, come tradizione, alla Piazza dei Mestieri, un sito dove ogni giorno, a Torino, oltre 500 ragazzi dai 15 ai 18 anni vanno a scuola in una combinazione innovativa di insegnamento in aula e di lavoro in azienda. La Piazza dei Mestieri è stato un progetto innovativo di successo, nato dall’esperienza, passione, energia e, come sempre in questi casi, sana pazzia di un gruppo di amici che hanno voluto farsi carico degli altri, di quelli meno fortunati di loro. Poi, e non bisogna sottovalutarne la portata emotiva, per ricordare per sempre un loro amico che li aveva lasciati prematuramente. La Piazza dei Mestieri si occupa di formazione, di quel modello di apprendimento fondamentale per chi esce dall’adolescenza e deve affrontare il tema di dare una risposta alla domanda fondamentale delle nostre vite: “cosa farò da grande?”

I ragazzi della Piazza provengono da situazioni delicate, spinose, socialmente complesse. Rappresentano quindi un target fragile che, a maggior ragione, fa fatica ad individuare una strada per il suo futuro lavorativo. Ebbene, nonostante questo contesto e nonostante, soprattutto, il tema del lavoro negli ultimi anni sia diventato un’emergenza a causa della crisi economica mondiale scoppiata nel 2007, i risultati della Piazza, in termini di occupazione dei ragazzi formati in quel sito, sono stati straordinari. Rappresentano un esempio a livello nazionale ed internazionale. Tant’è che i promotori di questo progetto, dei pazzi visionari, come abbiamo detto, hanno già replicato l’esperimento in un contesto sociale ancora più complicato, ancora più emergenziale: a Catania.

Il tema del confronto dell’altra sera si è proprio concentrato sul come la Piazza possa reagire ed immaginare soluzioni anche di fronte alla rivoluzione dell’intelligenza artificiale in atto. Come debba programmare nuovi corsi di formazione per mestieri non tradizionali ma utili al nuovo contesto lavorativo con il quale dovremmo convivere nei prossimi anni: molti robot occupati e molti umani disoccupati e in cerca di lavoro.

Quale lavoro? Dal dibattito è emersa proprio la necessità di un’analisi dettagliata dei nuovi contesti industriali e lavorativi per capire quali possano essere le nuove figure professionali utili ad integrarsi con le macchine per poter migliorare non solo la coesistenza ma la produttività generale del sistema. Ne sono emerse tante ipotesi che, pur nella difficoltà della materia, possono farci sperare in soluzioni, ad oggi inimmaginabili, di profili lavorativi che saranno utili e necessari ai robot per poter fare meglio il loro lavoro. Ci siamo lasciati, con gli amici della Piazza, con il compitino di proseguire i ragionamenti e soprattutto di concentrarci su quali nuove mansioni dovremmo costruire la nuova formazione dei nostri giovani o comunque degli umani da ricollocare. Ci vorrà in ogni caso uno scarto culturale. Dovremmo abbandonare la pigrizia di pensare ai mestieri tradizionali, quelli che siamo abituati a frequentare da quando siamo nati. La vera sfida risiede, ad avviso di Pickett, proprio nella capacità di avere una visione del mondo che verrà e soprattutto del nuovo mondo del lavoro e delle sue continue rivoluzioni di modello.

Il secondo esempio ci arriva dagli Stati Uniti e da un’azienda tessile molto famosa e reputata nel mondo: la Levi Strauss, la famosa società che si è inventata la rivoluzione dei blue-jeans. Fu fondata alla metà dell’ottocento da un immigrato tedesco a San Francisco, Levi Strauss. All’inizio forniva i capi di abbigliamento ai cercatori d’oro in California e ben presto i suoi pantaloni in denim, con le tasche rinforzate (questa fu la vera invenzione, tra l’altro brevettata, da Levi Strauss) divennero l’uniforme del mondo intero, unendo giovani e anziani, maschi e femmine senza riguardo a geografia, religione o differenze di altro genere. L’attuale capoazienda, Bart Sights, un mago dei tessuti, negli scorsi anni ha aperto un laboratorio, chiamandolo, non a caso, Eureka, proprio per studiare tutti i nuovi modi per disegnare e fare meglio i vecchi blue-jeans.

Oggi, quel progetto visionario, è pronto. È stato chiamato project FLX, Future Led Execution.

Ce lo racconta, il futurologo per definizione, Riccardo Luna, instancabile curioso del mondo e delle sue innovazioni.

“Il Progetto FXL inizia su un tablet – scrive Luna – lì il designer immagina tutte le soluzioni possibili per un nuovo paio di jeans. Quando ha deciso, con un clic di stampa il prototipo è pronto in poche ore invece che in alcuni mesi. A quel punto entrano in scena i laser: oggi l’effetto usato di molti jeans e le sfumature di colore si ottengono con moltissime ore di lavoro manuale da parte di operai spesso sottopagati in fabbriche del Far East. Un lavoro non privo di rischi perché, per farlo, si utilizzano agenti chimici per ottenere quei risultati che noi consumatori vogliamo. Con il laser, questa è la promessa, il tempo necessario a rifinire un paio di jeans passa da 30 minuti a 90 secondi. E soprattutto non ci sono più rischi per la salute. Zero prodotti chimici da inalare o toccare. Ci pensa il laser. Il terzo passaggio è solo apparentemente il marketing, ma in realtà è la sostenibilità. Perché questa accelerazione nella ideazione, nella prototipazione e nella produzione consentirà di produrre capi all’ultima moda praticamente in tempo reale; e quindi di azzerare gli sprechi. Secondo un calcolo fatto di recente, ogni anno quasi 100 miliardi di abiti mai usati finiscono nelle discariche, si tratta di una cifra enorme! La domanda che resta è la seguente: che fine faranno i 13.500 dipendenti della Levi Strauss nel mondo?

È la domanda chiave della rivoluzione digitale che stiamo vivendo – sottolinea Luna – perché questa storia, aldilà di ogni ragionevole dubbio, ci insegna molte cose: la prima è che il digitale non è affatto il regno dei siti e delle app ma è un set di tecnologie abilitanti che cambiano ogni settore della nostra vita (se questo modello funziona per i jeans di San Francisco, può funzionare per qualunque settore del Made in Italy). La seconda lezione è che il digitale, declinato correttamente, porta vantaggi per tutti, persino all’ambiente. Ma resta la domanda cruciale sui posti di lavoro. E la risposta passa per una riqualificazione vera di chi lavora in fabbrica, nell’investimento in competenze digitali, in una scuola che insegni a fare lavori anche se ancora non esistono. Nell’andare avanti tutti insieme. Non certo nel ritorno ad un meraviglioso “passato che non c’era”.

E dal 2020, alla Levi Strauss, i robot prenderanno il posto degli umani: tra due anni dovremmo essere pronti a reagire e ad adeguarci a tale nuovo contesto produttivo. Non è detto che questa sia dunque soltanto una brutta notizia. Anzi ci potrebbero essere molti risvolti positivi e non solo per i proprietari della società ma per tutti noi abitanti del mondo.

Riccardo Luna, accompagnandoci all’interno della sperimentazione della Levi Strauss, ci ha riportati al punto di partenza: la vera sfida dei prossimi mesi-anni sarà basata su una rivisitazione della formazione dei futuri lavoratori. Soltanto se sapremo rivisitare virtuosamente e con approccio visionario le categorie concettuali e i contenuti dei moduli formativi che oggi sono in uso nel mondo della formazione, potremmo sperare di vincere anche questa sfida. Non dobbiamo dunque subire la rivoluzione portata dalla intelligenza artificiale ma aggredirla, valorizzandone gli aspetti innovativi e salvaguardando il nostro futuro di “registi” di ogni settore del mondo del lavoro.

Buona Pasqua a tutti.

Comments (2)
  1. Carlo Fei (reply)

    3 Aprile 2018 at 10:38

    Credo che stiamo andando incontro ad un periodo di cambiamento profondo e repentino come mai il genere umano ha affrontato.

    La rivoluzione digitale è la più rapida che l’Homo Sapiens si sia mai trovato costretto ad affrontare. E non ci rendiamo conto dell’impatto che produrrà non solo perché oltre la collina non è dato vedere, ma anche perché siamo strutturalmente portati a misurare i cambiamenti attribuendo la dimensione in maniera proporzionale e qui si tratta di ragionare in modo esponenziale e noi semplicemente non siamo attrezzati a questo processo mentale.

    Dunque non solo lavoro che cambia (nella quantità e nella qualità) ma sistemi sociali che vanno ridisegnati (avrà ancora senso la democrazia così come noi occidentali la definiamo?) e soluzioni straordinarie a problemi apparentemente irrisolvibili (si parla di uomo amortale già entro la fine del secolo grazie all’intervento su malattie e processi di invecchiamento) che tuttavia ridisegneranno la morale, l’etica e forse le nostre ansie.

    Sono tuttavia molto contento di vivere in questi anni di cambiamento ed esserne spettatore. L’uomo comunque è sempre progredito alla faccia dei detrattori pessimisti che disegnano il nostro essere umani come sempre uguale a se stesso e schiavo delle proprie circolari violenze, contraddizioni ed egoismi. Non credo.
    Ora si vive meglio (tutti, anche nell’Africa nera…), più a lungo, si guarisce, si può aspirare a qualcosa di superiore alla semplice sopravvivenza e ci si rispetta di più. Dunque anche il lavoro, credo, sapremo ridisegnarlo ed adeguarlo e la rapidità dell’adattamento sarà proporzionale alla disponibilità culturale al cambiamento. Sono ottimista…

  2. Alberto Contri (reply)

    3 Aprile 2018 at 12:02

    La rivoluzione digitale e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale sono due questioni strettamente collegamente che andrebbero affrontate con un approccio olistico senza pregiudizi ma anche senza mitizzazioni. A mio avviso la domanda di fondo può essere sempre una sola: lo sviluppo tecnologico e informatico è a favore dello sviluppo dell’umanità o di quei pochi miliardari svelti e capaci di utilizzarlo a fondo? L’IA (che poi non è intelligenza in senso stretto, ma potenza di calcolo) va sviluppata per supportare l’uomo o per prenderne il posto? Per il nuovo tipo di sviluppo servono nuovi meccanismi regolatori della concorrenza e del mercato del lavoro o dobbiamo lasciare campo libero ad un liberismo sfrenato che ci sta riportando pari pari ai padroni delle ferriere (v. Amazon) ?. Oltre che ad una responsabilità di tipo regolatorio (interessanti gli scritti di Luciano Floridi della Oxford University sull’etica della rete) esiste una responsabilità di indirizzo che dovrebbe essere ad esempio del ministero dello Sviluppo economico. Già oggi nell’aera della meccatronica (la ex industria meccanica) ci sono circa 80.000 posti di lavoro che aspettano altrettanti tecnici che abbiano frequentato gli ITS, dove non ci si sporca più le mani ma si vive da tecnici e sperimentatori tra robot e computer applicando gli studi fatti all’ITS in domotica, meccanica, elettrotecnica e informatica, e con buoni stipendi sin da subito. Perchè se molti lavori anche pericolosi (ad es. verniciatura) vengono svolti da robot, ci dovranno essere degli umani in grado di guidarli, maneggiarli, farli evolvere. Il che significa che fin da oggi si dovrebbe imporre una forte svolta alla formazione delle nuove generazioni di lavoratori, sapendo che non troveranno più sbocco in lavori pesanti e ripetitivi, ma in mansioni di carattere superiore. Ricordiamo cosa ha detto uno dei massimi esperti di trasformazione digitale (Edward Roberts, autore di The digital Transformation Playbook, Columbia Business School): “La trasformazione digitale non riguarda lo sviluppo della tecnologia, ma lo sviluppo delle nostre capacità strategiche”.

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