Sono diventati i due slogan più gettonati in Europa. I più gridati in tutte le piazze del nostro continente. I più utilizzati nelle campagne elettorali in programma in questi mesi nella nostra povera e bistrattata Europa: “Fuori dall’Euro! … fuori dall’Unione Europea!”.

Come ci ricordava Michele Serra in una sua recentissima Amaca, oggi la vera mission impossible a livello politico è quella di cercare di capire il contesto in cui viviamo, di approfondire i temi più delicati; il confrontarsi civilmente, il provare a ricostruire una coesistenza pacifica, il fare proposte non velleitarie o divisive ma stabili e inclusive. Il tutto, in un scenario globale confuso e preoccupante. E’ molto più semplice invece mettersi alla finestra, registrare i malesseri popolari di “quel giorno”, farli propri e gettare benzina sul fuoco moltiplicando le grida, gli insulti, le promesse miopi ma di grande efficacia mediatica.

Siamo ridotti così, ma non dobbiamo arrenderci a questa deriva populista e demagogica foriera di situazioni drammaticamente già viste nel secolo scorso. Dobbiamo reagire cercando di essere lucidi, visionari ma estremamente critici, anche verso noi stessi, sul “come” abbiamo gestito la nostra convivenza a livello personale e a livello generale in questi ultimi anni.

A questo proposito e anche nell’ottica di aiutarci a capire meglio alcuni degli stereotipi gridati in tutta Europa contro il “rimanere insieme”, Pickett ha apprezzato molto l’iniziativa dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) di introdurre una nuova rubrica nell’ambito delle sue pubblicazioni on-line: un “Fact Checking” che misura, argomento per argomento, l’efficacia o meno delle promesse politiche fatte con gli obiettivi effettivamente raggiunti. Un format nato nei paesi anglosassoni (tornato di grande moda in questi tempi di “Trumpismo” dilagante) con il quale la stampa, libera e indipendente, controlla, nella forma e nella sostanza, l’efficienza/efficacia dei governanti in quel certo momento storico. L’ISPI ha pubblicato proprio in questi giorni un “Fact Checking” sull’Euro e sull’Unione Europea. Un documento che ci serve anche a fare il punto sui pregi e difetti di quanto è stato fatto fino a oggi in Europa e di quanto si potrebbe ancora fare nei prossimi mesi per salvarla dalla dissoluzione.

Nella ricorrenza dei 25 anni dalla firma del trattato di Maastricht, l’ISPI ci ha fornito elementi storici ed economici, supportati da tabelle facilmente comprensibili, per aiutarci a costruire dentro di noi un’opinione motivata sull’utilità di un’Europa unita, sentita e voluta dai popoli europei e non soltanto imposta e gestita dai “ragionieri” di Bruxelles, non eletti ma diventati i veri driver della politica europea.

Seguiamo dunque le 12 domande del “Fact Checking” predisposto dall’ISPI. Abbiamo lasciato il commento originale introducendo qualche nostra riflessione in carattere corsivo al fondo di alcune risposte.

 

L’euro ha fatto aumentare i prezzi

FALSO
Dagli anni ’70 agli anni ’90 l’Italia registrava in media tassi di inflazione dell’11,5% all’anno, con punte superiori al 20%. È proprio con il Trattato di Maastricht (1992), e dunque con l’avvio della costruzione dell’euro, che l’inflazione è crollata. È comunque vero che nel momento dell’entrata in circolazione dell’euro (2002) alcune categorie hanno approfittato del passaggio lira–euro per ritoccare al rialzo i prezzi, come dimostra questo studio.
Ma ciò ha avuto un impatto minimo sull’andamento dei prezzi. Negli ultimi anni invece il problema sembra l’opposto: inflazione molto bassa o addirittura negativa (+0,2% nell’Eurozona e –0,1% in Italia nel 2016).
 
 

Commento di Pickett: è indubbio che il change over Lira-Euro è stato in allora comunicato male in Italia e in altri paesi. Sia il tasso di conversione Lira-Euro a quota 1936 e rotti, sia il conio della nuova moneta da 1 Euro hanno creato, fin da subito, confusione, perplessità, spinte all’aumento dei prezzi, speculazioni da parte di alcune categorie merceologiche.

Con l’euro l’Italia ha perso sovranità monetaria

VERO
Formalmente è così, ma va ricordato che, con la lira, la sovranità era già più formale che sostanziale. Spesso infatti la credibilità e forza del marco imponevano all’Italia, e agli altri paesi europei, di seguire le politiche monetarie decise dalla Bundesbank, e quindi legate alle sole esigenze tedesche. Inoltre l’Italia risultava a rischio di attacchi speculativi, che il parziale scudo offerto dall’allora Sistema Monetario Europeo (SME) non era in grado di arginare. Indicativo, ad esempio, l’attacco del 1992, quando la lira vide crollare in poco tempo il suo valore del 20%. In generale, è bene sottolineare che il concreto esercizio della sovranità (non solo in campo monetario) non dipende esclusivamente dal fatto che questa venga formalmente esercitata da una autorità nazionale, ma anche e soprattutto dalla credibilità/forza che a questa viene riconosciuta dal resto del mondo.
Con l’euro l’Italia ha casomai acquisito, nel concreto, una quota di sovranità perchè partecipa con gli altri paesi alla formulazione della politica monetaria (invece di subirla piuttosto passivamente) ed è riuscita anche ad esprimere il presidente della Bce.
 
 Commento di Pickett: di contro ai governi italiani è venuta meno la possibilità di usare lo strumento della svalutazione della Lira per rilanciare le esportazioni. Una manovra ripetutasi numerose volte nell’ultimo trentennio del secolo scorso. La realtà è che i governi italiani hanno perso, intorno agli inizi di questo millennio, una grande opportunità per mettere a posto i conti dello Stato, forti di una stabilità valutaria mai vista prima e di un costo del denaro molto basso. Era una straordinaria occasione per affrontare il tema del colossale debito maturato fin dagli anni ’80 rilanciando la competitività reale del paese ed entrando nel merito delle riforme strutturali sempre strozzate dall’enorme costo del servizio al debito

 

La moneta unica ha fatto guadagnare
di più alla Germania che all’Italia

FALSO
Nei primi anni dell’euro, la Germania veniva descritta come il grande “malato d’Europa”. Per far fronte a questa situazione, Berlino ha realizzato una serie di profonde riforme che hanno rilanciato la competitività dei suoi prodotti, attraverso un aumento della produttività e una contestuale politica di moderazione salariale (riforme Hartz). È soprattutto questo alla base del successo commerciale tedesco, di cui ha beneficiato anche l’Italia esportando in Germania molti prodotti finiti e semilavorati.
Da tempo però Berlino viene criticata per tenere eccessivamente bassi i salari, deprimendo così anche la domanda di beni importati da altri paesi europei. L’Italia, d’altra parte, non ha saputo tradurre gli ingenti capitali affluiti nel paese (più di 200 miliardi di euro tra 1999 e 2007) in maggiore competitività, perdendo terreno dal punto di vista del saldo commerciale con il resto del mondo.
 
Il ritorno alla lira
farà crescere le nostre esportazioni

FALSO
Una nuova lira sarebbe più debole dell’euro, con la conseguenza che nell’immediato le nostre esportazioni potrebbero risultare meno care all’estero. Non va però dimenticato che l’Italia importa molte materie prime, energetiche e non, dall’estero. Il loro acquisto sarebbe quindi più oneroso, riducendo il vantaggio dal lato delle esportazioni.
In ogni caso una lira con un cambio flessibile non sarebbe facilmente manovrabile per stimolare l’export in quanto facile preda di movimenti speculativi. Ma è ancora più importante ricordare che, al di là dei (limitati) effetti del tasso di cambio nel breve periodo, una vera ripresa delle esportazioni può avvenire solo se si diventa più competitivi. Un indicatore fondamentale al riguardo è la produttività del lavoro – ovvero quanto viene prodotto dal lavoratore per ora lavorata. È indicativo che dalla fine degli anni Settanta a oggi la produttività del lavoro in Germania sia cresciuta ogni anno di più di quella italiana. Il ritardo che abbiamo accumulato è enorme: mentre tra il 1979 e oggi la produttività tedesca è cresciuta dell’84%, quella italiana è cresciuta di poco più della metà (43%). Aumentare la spesa produttiva e procedere alle riforme strutturali è fondamentale per rilanciare la competitività del nostro paese.Commento di Pickett: il ritorno alla Lira comporterebbe immediatamente un aumento del costo del nostro indebitamento strutturale con uno spread che salirebbe a livelli di guardia. A fronte quindi dei benefici derivanti dalla flessibilità della nostra valuta, in caso di ritorno alla Lira si ripartirebbe con un vincolo insormontabile e probabilmente condizionante per qualsiasi manovra di politica economica: un costo del debito sempre più alto e devastante sul deficit annuale.
 
I paesi Ue fuori dall’Eurozona
crescono più di quelli che stanno dentro

VERO
Dal 2000 a oggi i paesi che sono entrati nell’Unione europea – ma non nell’euro – hanno visto triplicare il loro Pil, mentre i paesi dell’Eurozona lo hanno raddoppiato. Questo è tutt’altro che sorprendente, e risulta invece in linea con quanto prevede la teoria economica. I paesi dell’est Europa partono infatti da una condizione di sviluppo molto più arretrata rispetto alle “economie mature” che fanno parte dell’Eurozona. Nelle fasi iniziali di sviluppo i tassi di crescita dei paesi (grazie anche ad alti tassi di rendimento degli investimenti) tendono ad essere maggiori. Una dinamica molto più forte dell’adozione o meno della moneta unica.
 
Senza la moneta unica
gli stati avrebbero affrontato meglio la crisi

FALSO
Prima dello scoppio della crisi non esisteva alcun meccanismo europeo di salvataggio dei paesi in difficoltà. Dal 2012 sono stati creati vari strumenti, soprattutto il c.d. “fondo salva–stati” (European Stability Mechanism), che hanno permesso di salvare dal fallimento 5 paesi, per un totale di 433 miliardi di euro erogati. Notevoli anche gli interventi della Banca centrale europea di Mario Draghi che ha avviato, tra le altre cose, piani di acquisto di titoli di stato (a oggi oltre 260 miliardi di euro solo per l’Italia), senza i quali i paesi europei “deboli” si sarebbero dovuti indebitare sul mercato a tassi molto più alti.
 
L’euro funziona male
perché la sua costruzione è incompleta

VERO
Il potenziale dell’euro non viene utilizzato appieno anche perché la sua costruzione è a oggi incompleta. È difficile infatti far funzionare bene una moneta unica se i suoi paesi crescono con velocità diverse. In alcuni campi molto è stato fatto per spingere verso una maggiore convergenza.
É il caso del coordinamento delle politiche di bilancio degli stati. Non è così però riguardo ad altre politiche, da quelle industriali a quelle del lavoro, al welfare. Un tentativo di maggior coordinamento c’è stato (la procedura per squilibri macroeconomici eccessivi), ma questo non impedisce alla Germania di avere ancora un saldo commerciale in evidente squilibrio (il 9% del Pil rispetto al vincolo Ue del 6%;
Ancora molto carente è inoltre l’aspetto solidaristico. La condivisione del rischio è un taboo per la Germania, non solo in merito ai debiti pubblici ma anche in campo bancario. L’unione bancaria è infatti già operativa riguardo alla supervisione unica su tutte le grandi banche dell’Eurozona e in merito alla condivisione di regole comuni per la risoluzione di crisi bancarie (c.d. “bail–in”). Stenta invece a decollare quando si tratta della creazione di fondi comuni, per gestire ad esempio le stesse crisi bancarie o fornire garanzie comuni sui depositi. Carenze che, soprattutto nell’attuale clima di incertezza, spingono di nuovo i mercati a “pesare” diversamente i vari rischi paese nell’Eurozona.
 

*** *** ***

Ad integrazione del Fact Checking di ISPI è interessante meditare sulle conclusioni di un sondaggio effettuato proprio in questi giorni dalla Fondazione tedesca Friedrick-Ebert per fare il punto su quali siano i rapporti “emotivi” tra gli italiani e i tedeschi in questo delicato e complesso contesto europeo.

Il rischio di un peggioramento dei rapporti tra le due nazioni causato dalle rilevanti differenze economiche e strutturali (la Germania in costante crescita, l’Italia in permanente depressione o stallo!) ha spinto il centro studi tedesco a intervistare un campione di cittadini dei due paesi ricavandone un quadro interessante sul quale fare dei ragionamenti. Il 43% degli italiani pensa che sia stato uno svantaggio aderire all’Unione Europea. Il 43% dei tedeschi, curiosamente la stessa percentuale dei contrari italiani, ritiene che la Germania ci abbia guadagnato ad entrare nella UE. Gli italiani contrari all’Euro sono il 53% contro il 41% dei tedeschi che lo valutano in modo positivo. Alla domanda posta dalla Fondazione Friedrick-Ebert su chi abbia tratto vantaggio maggiormente dall’Euro, il 74% degli italiani risponde senza alcun dubbio: i tedeschi! Invece i nostri vicini si dividono: il 31% è d’accordo che la Germania abbia tratto vantaggio dall’Euro ma il 27% è convinto che ne abbia beneficiato di più l’Italia. Circa 1/3, il 29%, ritiene che l’Euro abbia fatto bene ad entrambi i paesi. Universale la critica contro la BCE di Draghi: il 64% dei tedeschi sostiene che la sua politica sia contro la Germania e così il 67% degli italiani ritiene che sia contro l’Italia. Entrambi ritengono che sia l’altro paese ad averci guadagnato di più. Il 75% dei tedeschi ritiene che la Germania dovrebbe assumere la leadership dell’Unione Europea e il 66% degli italiani è fortemente contrario a tale ipotesi. Il 30% degli italiani sarebbe favorevole ad una Merkel a capo dell’Unione Europea mentre tale scenario è osteggiato dal 21% dei tedeschi. Per i 3/4 degli italiani la Germania dovrebbe tener conto maggiormente degli interessi degli altri paesi, consentendo la mutualizzazione dei debiti pubblici, degli Eurobond e acconsentendo anche ad una revisione dei criteri di stabilità. Per il 65% dei tedeschi tale auspicio deve essere fermamente respinto. L’attuale status quo deve essere mantenuto ed è intoccabile.

Il quadro che emerge dal sondaggio della fondazione tedesca costituisce, ad avviso di Pickett, un forte monito per le classi dirigenti politiche dei due paesi a porsi il tema di una maggiore comprensione tra i due popoli. Le risposte date all’indagine effettuata evidenziano filoni di pensiero opposti, spesso in forte contrasto emotivo tra di loro. Crediamo che soltanto un’attenta meditata e approfondita comunicazione da parte dei due governi potrebbe favorire il nascere di una consapevolezza nei due popoli di quanto sia importante che l’Italia e la Germania mantengano un buon rapporto, non solo istituzionale, ma anche tra la gente: quella gente comune che nei rapporti quotidiani di lavoro o di svago dimostra, nei numeri, di amare e rispettare la controparte. Quando i temi diventano più “alti” e riguardano la politica, non solo economica, si creano invece delle barriere psicologiche, dei preconcetti, dei pregiudizi. Il rischio della incomprensione e incomunicabilità è alto e deve essere affrontato con attenzione, tempistica e visione virtuosa.

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In sintesi, il modello economico immaginato per un’Europa unita, proprio alla luce del rapporto ISPI, non era sbagliato e non ha, di per sé, causato danni alle economie dei singoli stati membri. Anzi! La verità, come da più parti sottolineato in questi anni, è che l’unione economica da sola non basta. Bisogna associarla alla creazione di una vera e propria unità politica, reale e non formale. Alla creazione di uno spirito identitario che, superando le statistiche del sondaggio della Fondazione Friedrick-Ebert, faccia nascere o rinascere dal “basso” o, comunque, se necessario, anche dall’”alto”, dentro la mente e il cuore degli europei, la voglia di stare insieme. Non per forza ma per scelta. Bisogna che tale messaggio “scenda” tra la gente comune, tra le persone normali, nelle periferie disagiate del nostro continente, tra le masse confuse angosciate e impaurite dalle conseguenze del cosiddetto villaggio globale, dal terrorismo dilagante, dalle immigrazioni subite e non gestite proattivamente né dall’Unione Europea né dai singoli stati membri.

Pickett crede fermamente che l’Europa confederata sia l’unica soluzione per poter partecipare alla sfida competitiva internazionale. L’immagine dei tre leader europei, Hollande, Merkel e Renzi, a Ventotene nello scorso agosto, dovrebbe rappresentare l’icona del rilancio dell’europeismo proprio nato su quell’isola del Mar Tirreno grazie all’intuizione straordinaria di gente come Spinelli, Rossi e altri confinati dal fascismo. Bisogna però crederci ed individuare una governance nuova ed innovativa diretta dalla politica e non dall’amministrazione dei burocrati. Una governance che sappia mettere le gambe ad un grande sogno oggi a rischio di fallimento. Nel volgere di pochi mesi si terranno elezioni politiche generali nei Paesi Bassi, in Francia, in Germania e molto probabilmente anche in Italia: elezioni tutte decisive per il futuro dell’Unione Europea. Le forze che ne vogliono il fallimento e la disgregazione, si presentano forti, agguerrite e temibili, come scriveva in questi giorni su La Repubblica Massimo Riva. Tali forze non presentano alcuna proposta di riforma dell’attuale governance europea; non danno spunti, non presentano progetti, non hanno la minima idea di come colmare le oggettive lacune ed inefficienze che impediscono al mercato unico di dispiegarsi. Parlano per slogan, usano le parole come manganelli, lanciano “vaffa” che riecheggiano slogan dei periodi più oscuri dei regimi dittatoriali del ‘900. Puntano a “far presa sul sentimento popolare più diffuso … più adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico”. Lo scrivevano già, testualmente, Spinelli e Rossi a Ventotene proprio nel Manifesto sul loro sogno di Europa unita.

Il Fact Checking dell’ISPI, ci auguriamo, ci abbia aiutato tutti a capire meglio i pregi storici e le debolezze attuali dell’Unione Europea. Adesso si apre il momento della proposta di riforma della governance: un lavoro complesso, tecnicamente molto delicato, politicamente molto alto. Un lavoro sicuramente più in salita del semplice “vaffa” dei populisti demagogici.

 

 

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