Riccardo Viale, sulle colonne del Corriere della Sera, affronta un tema “vicino” a quello sviluppato da Pickett in uno degli ultimi contributi: il rapporto tra Cittadini e Stato e la classe dirigente politica di un paese. Viale ci sottopone una interessante motivazione dell’attuale quadro politico, andando a scavare negli anni della ricostruzione del paese, subito dopo il 1945. È in quel periodo che si possono comprendere le ragioni della difficoltà che l’Italia ha spesso, non sempre, avuto per costruire una leadership adeguata al suo potenziale industriale e al suo ruolo politico in Europa e nel mondo.

Proviamo a sintetizzare il ragionamento di Viale.

L’autore parte da una premessa: “A parte qualche eccezione, la maggior parte della compagine ministeriale attuale brilla per assenza di titoli ed esperienza politica e amministrativa”. Le ragioni? “Ci spiegheremo il fenomeno con la caratura populista della coalizione. Si sa i populisti e chi promuove, a parole, la democrazia diretta ha bisogno di figure di governo in cui tutti si possano identificare. E soprattutto i leader “carismatici” preferiscono collaboratori deboli che non disturbino il manovratore. L’America Latina e i vari governi di stampo peronista populista continuano a fornire esempi in tal senso. La sorpresa però è relativa, in quanto già la Seconda Repubblica ci ha abituati a questo basso profilo di molta parte della compagine di governo”

Dunque, sempre secondo Viale (i) figure facilmente identificabili per tutti (“è uno di noi”), (ii) grigi per non oscurare il/i leader.

Per Viale questa però non è, come sembrerebbe o come ci viene raccontata dai media di regime, una novità: infatti “Se ci ricordiamo della composizione del governo Renzi, una buona parte delle caselle erano occupate da “beginner” della politica, senza esperienza professionale e di gestione della cosa pubblica. Anche in questo caso le ragioni erano sostanzialmente simili a quelle populiste dei penta-leghisti”.

Dunque?

“La deriva penta-leghista sembra, a prima vista, l’ultimo esempio  di un criterio populistico nella scelta dei membri del governo, già presente nella esperienza di Berlusconi e successivamente di Renzi”.

Le motivazioni di tale imbarazzante selezione del personale politico che dovrebbe guidare il nostro paese anzi che lo sta guidando, risalgono al primo dopoguerra quando si iniziò ad abdicare al criterio della competenza e conoscenza privilegiando altri principi per la selezione / cooptazione.

Le sue radici – secondo Viale –  si trovano nella Prima Repubblica e in particolare nel populismo dei partiti popolari usciti dalla fine della guerra”.

Per Viale il ruolo dell’élite, degli Optimati, di coloro che avevano i requisiti per gestire il paese diventò, fin da subito, per la nostra giovane repubblica, il Tema da discutere e risolvere. In un modo o in un altro.

“Che ruolo devono avere nel futuro del Paese; come devono essere formate e selezionate; quale rapporto ci deve essere fra loro e la democrazia; in definitiva come le élite possono diventare classe dirigente”.

L’unico partito che si batté tenacemente per imporre un sistema di formazione della classe dirigente politica basato su competenza, meritocrazia e sensibilità sociale fu il Partito d’Azione: “Vi era un partito che aveva una posizione molto diversa e contestata dai partiti popolari Dc, Pci e Psi. Il Partito d’Azione, espressione delle brigate partigiane di Giustizia e Libertà ed ispirato dal pensiero di Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini, aveva ereditato la lezione mazziniana sul ruolo centrale della classe dirigente come garante di una rivoluzione morale e culturale del paese”.

Per i leader azionisti, presto politicamente scomparsi anche per scelte interne suicide “Alle migliori competenze, ai migliori tecnici, esperti ed intellettuali doveva essere assegnato un ruolo centrale nella gestione della cosa pubblica. La società doveva sviluppare canali istituzionali, dalla scuola alla università al mondo del lavoro, dove formare e attingere la migliore gioventù italiana e indirizzarla alla politica e alla Amministrazione pubblica”.

I partiti popolari, Dc e Pci, secondo Viale, hanno “trascurato e in alcuni casi demonizzato il problema della classe dirigente”.

Sul punto Pickett non condivide la tesi di Viale: basti pensare alle due grandi ed autorevoli scuole di formazione politica delle Frattocchie e della Camilluccia, rispettivamente gestite dal Partito Comunista Italiano e dalla Democrazia Cristiana. Semmai la formazione e selezione aveva un’ottica solo interna ai due partiti citati, e questa era la loro debolezza o marginalità rispetto ai bisogni del paese.

Ma riprendiamo il ragionamento di Viale

Questi partiti, dopo l’esperienza del ventennio fascista, avevano di fatto messo sullo stesso piano elitismo e creazione di una classe dirigente. Stranamente, nel Paese di Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, avevano confuso le degenerazioni antidemocratiche dell’elitismo con la funzione pluralistica e morale di una classe dirigente selezionata sulla base del merito e dell’esperienza politica e amministrativa”.

Le competenze potevano essere utilizzate ma soltanto per specifici temi, in modo cinico, ristretto mai sistemico.

In ogni caso gli intellettuali rimanevano sempre degli “utili idioti”.

Viale conclude il suo pezzo comparando questa storia italiana con quella di due altri grandi paesi europei. “Non è mai nato, in Italia, un sistema come quello in vigore in Gran Bretagna e Francia di incubazione istituzionale delle élite per indirizzarle a diventare, attraverso stadi progressivi di esperienza amministrativa, classe di governo del Paese”.

Una conclusione sconfortata e sconfortante che ha però il pregio di evidenziare l’importanza strategica per un paese di attrezzarsi per poter contare su “guidatori” della macchina statale adeguati al loro difficile ruolo.

Secondo Viale: “Questo è il lascito populista dei partiti popolari del Dopoguerra di cui si nutre il populismo di oggi. Non dobbiamo, perciò, stupirci se oggi giorno all’inizio della Terza Repubblica, il valore della conoscenza e della competenza sia al gradino più basso della storia del nostro Paese”.

Secondo Pickett non dobbiamo arrenderci.

Il valore della lealtà (di per sé alto e stimabile) non può prescindere e prevaricare il valore della competenza e del merito.

Mi contorno di amici fidati così non mi tradiscono e non mi fanno ombra” è il mantra della contestazione ai nostri leader anche più carismatici. E alla domanda: ma sono inadeguati ai ruoli di governo? La risposta è sempre la stessa “impareranno!”.

E allora, se vogliamo conservare una briciola di speranza di cambiamento, quello vero, comportamentale e culturale, non quello sbandieramento a parole, iniziamo da Noi, dalle nostre realtà, dalle nostre aziende e adottiamo sul serio il principio di Steve Jobs: “Io vorrei avere intorno dei collaboratori più bravi di me. Quando li scelgo punto a questo. Solo così un’azienda può crescere”.

E anche un Paese crescerebbe!

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