La ripresa economica si consolida ma il malessere generale non si attenua. I populismi crescono non solo in Europa. L’onda nera del neofascismo che sta sommergendo l’Europa nasce da una rabbia-paura che l’immigrazione non gestita e blindata sia la vera ed unica causa di tutti i nostri mali. Gli immigrati ci portano via il lavoro, creano problemi di ordine pubblico che minano le nostre sicurezze, contaminano negativamente la nostra identità religiosa e civile. Questo format di ragionamento, semplicistico e brutale, sfonda, anche dal punto di vista elettorale, su una popolazione incattivita, rancorosa, egoista e sempre più, di conseguenza, chiusa a difendere i propri laghetti, i propri piccoli interessi, ad alzare muri e a chiudere porte piuttosto che a costruire ponti e ad aprire dialoghi e relazioni con gli altri umanoidi.

Il rapporto del Censis, appena pubblicato e a cui daremo spazio in un prossimo contributo, fotografa questa situazione del nostro paese: ripresa sì ma tanto rancore… anche! Forse l’andamento dell’economia non conta più così tanto sull’umore dei cittadini? Si chiedeva in questi giorni, sulle colonne di Repubblica, il professor Emanuele Felice. La risposta era sì, certo che conta, ma ormai il modello di sviluppo di questo capitalismo del Terzo millennio premia solo le classi agiate, i cosiddetti ricchi e non spalma più alla maggioranza della popolazione i frutti di una ripresa economica, anche importante, come quella che stiamo vivendo dopo 10 anni di crisi.

Questo, ad avviso anche di Pickett, è il punto centrale del malessere diffuso in tutto il mondo. Troppo pochi, sempre gli stessi, sono i beneficiari dei risultati positivi della ripresa; troppi… tanti vengono esclusi e arrancano sempre di più per cercare di coniugare il pranzo con la cena. Con un terribile slogan giornalistico, potremmo dire di vivere uno straordinario boom di povertà, soprattutto in Italia.

Ci sono (fonte Censis 2017) 1.600.000 famiglie al di sotto della soglia di povertà: il 96% in più del 2007. Gli individui indigenti sono saliti a 4.700.000: il 165% in più rispetto a 10 anni fa quando scoppiò la grande depressione. La forbice della disuguaglianza ha assunto proporzioni enormi, prodromiche allo scoppio di rabbia e rancori, proprio dove pesca a piene mani il populismo demagogico.

E allora proviamo a fermarci un attimo e a riflettere con qualche esempio concreto.

Primo esempio: la globalizzazione ha fatto aumentare le disuguaglianze nel mondo: chi può negarlo. E chi può contestare, come afferma il professor Felice, che il fenomeno della globalizzazione dei mercati sia stato vissuto dalle classi politiche in modo acritico. O accettandola senza riserve, favorendola così all’interno di politiche in cui il ruolo dello Stato doveva via via diminuire a vantaggio del mercato, delle regole spietate della concorrenza e della competitività. Oppure combattendola di principio, a prescindere dal merito, considerandola il “male dei mali”, senza addentrarsi in una critica più difficile è sofisticata ma anche più utile e costruttiva.

Secondo esempio: la rivoluzione in atto della “intelligenza artificiale”. È un dato di fatto che i robot stiano distruggendo posti di lavoro e che l’industria 4.0 tra 10 anni conterà più robot che operai. Questa rivoluzione sta portando un considerevole aumento dei profitti all’impresa e agli imprenditori e il trend sarà sempre più rilevante. Una buona notizia? Apparentemente sì ma la questione si fa più spinosa quando si vede dove stanno andando tali nuovi e ingenti profitti, figli della innovazione tecnologica. Sempre nelle tasche di pochi, degli stessi, di quelli che hanno un reddito alto. Conseguenze? La differenza fra le classi agiate e “gli altri” aumenta e aumenterà ancora. Sempre di più.

Terzo esempio: le nostre politiche economiche degli ultimi anni hanno privilegiato, per quanto possibile, la protezione del sistema pensionistico pur con tutte le sue complessità. Obiettivo pregevole, eticamente e socialmente comprensibile: solo che, “a risorse disponibili date”, tale intervento ha penalizzato i giovani, rimasti fuori “dal giro” del meccanismo delle protezioni legali ed economiche dei “diritti quesiti” e oggi diventati, loro malgrado, le vere vittime di questa nuova allarmante povertà. Le statistiche sono paurose: le nuove generazioni, senza il supporto del Welfare familiare (genitori, nonni, zii e parenti vari!) sarebbero ghettizzate in un angolo del mondo a vivacchiare di espedienti. Senza speranza nel futuro, senza segnali che qualcuno, non a parole ma con le decisioni e i comportamenti, si occupi finalmente di loro. Il rischio che si sia rotto il patto secolare che legava le generazioni è diventato una angosciante realtà, davanti ai nostri occhi. Lo riassume efficacemente il direttore generale del Censis, Massimiliano Valeri, firmando proprio il rapporto 2017. “Si è rotto quel patto intergenerazionale che ha guidato in modo implicito lo sviluppo italiano dal dopoguerra in avanti, cioè quella tacita promessa per cui le nuove generazioni avrebbero goduto di condizioni sociali ed economiche migliori di quelle delle generazioni che le avevano precedute. È l’inceppamento dell’ascensore sociale che genera il rancore.”

Cosa fare? Arrendersi? O, peggio, chiudersi nel proprio egoistico “laghetto”?

Se fortunati e appartenenti alle cosiddette classi agiate potremmo goderci i frutti del surplus di ricchezza in arrivo grazie a globalizzazione, rivoluzione tecnologica e appartenenza alla generazione dei “non giovani”. Se sfortunati e appartenenti alle classi sociali più basse, e in più Giovani…, sfogando la nostra rabbia-pessimismo nei modi più diversi: astenendoci dal partecipare alla vita della nostra comunità; partecipandoci e votando il primo demagogo populista che ci dia la sensazione di occuparsi di noi oppure iniziando a lanciare ortaggi (e speriamo non di peggio! ) contro i “fortunati” sempre meno di numero ma sempre più ricchi.

Perchinelli ci ha ricordato recentemente il progetto-programma di Marx sottolineandone l’attualità del pensiero e dell’analisi politica ed economica di un modello di convivenza più felice pacifica e virtuosa “per tutti”. Un modello che, auspicabilmente, ci potrebbe evitare il sorgere e consolidarsi di una miseria globalizzata, “culla” di tutte le rabbie e rancori portatori di scontri , guerre , sangue e morti.

Un altro contributo al tentativo, sempre faticoso, di trovare delle soluzioni al peggio, già visto e pagato nel secolo scorso, ci arriva da un bel libro di Mariana Mazzuccato e Michael Jacobs ( Laterza ) dal titolo “Ripensare il capitalismo”. Un libro da tenere sul comodino da notte a disposizione per frequenti ritorni di lettura e riflessione. Questo, in sintesi, il pensiero dei due economisti che hanno scritto il saggio: il capitalismo è uno straordinario modello economico che ha saputo adattarsi nei secoli a diversi climi politici e sociali. Da quando è diventato, o meglio rimasto, l’unico modello di riferimento nel mondo ha perduto di efficacia ed efficienza. Ha ridotto la sua capacità di creare valore dando vita ad un arretramento del tenore di vita delle popolazioni. Il problema, secondo i due autori, è che questo modello economico così profittevole per pochi capitalisti produce instabilità e crescita debole con un conseguente aumento delle disuguaglianze di reddito e di patrimonio. Proprio queste sono le ragioni principali della debolezza della crescita. In più il capitalismo non ha favorito lo sviluppo di una cultura ambientale che viene sempre sottostimata rispetto alla sua fondamentale e strategica importanza. L’accelerazione dei cambiamenti climatici e l’aumento dei rischi ambientali stanno davvero minacciando il futuro del pianeta e dei suoi abitanti ma il capitalismo sembra distratto e lontano da questo tema. Sembra un modello economico che si occupa soltanto del presente e si disinteressa del futuro. La velocità con la quale crea valore è sempre concentrata sul breve termine penalizzando la propensione a investire e innovare sul futuro, sul medio e lungo termine. Meglio incassare i profitti subito che non reinvestirli sul futuro. Ma investire e innovare è quello che serve per avere una crescita sostenibile e inclusiva, insomma un futuro migliore.

La riflessione finale dei due autori coincide con una sorpresa rispetto all’atteggiamento delle leadership politiche mondiali: la politica continua a proporre uno schema competitivo che mira alla riduzione della tassazione invece di concentrare i suoi sforzi e le ridotte risorse a disposizione su politiche economiche che sostengano gli investimenti e l’innovazione. I profitti, concludono, si sostengono benissimo da soli: gli investimenti no!

Nell’ottica di cercare di evitare il binomio che sembra quasi un ossimoro “ripresa-rancore”, proviamo ad uscire dalle logiche insite nelle scorciatoie populiste e demagogiche e di riprendere invece in mano un progetto di revisione del modello economico della globalizzazione non per smontarlo ma per fare in modo che la ricchezza creata sia spalmata maggiormente sulla collettività. Che sia migliorata dal punto di vista dell’equità ridistributiva la qualità globale dei cittadini del Villaggio Globale. Forse non solo per una forma di altruismo velleitario ma anche , perché vergognarsene, per ciniche ragioni di opportunità, sognando una convivenza di maggior qualità , solidarietà e benessere di tutti.

E torniamo ad un ragionamento già sviluppato in passato da Pickett: che soddisfazione mi da essere un miliardario se poi, quando esco dalla mia casa, mi tirano le pietre!

Comments (1)
  1. Maurizio Baiotti (reply)

    6 Dicembre 2017 at 9:22

    Interessante disamina ma chi sarebbe in grado di iniziare questa rivoluzione?
    Un politico? Ma senza populismi o demagogia, solo sulla base della constatazione della realtà!

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