Su tutti i giornali italiani, tra gli auguri-auspici per il 2018 tutti parlano del tema della riduzione delle disuguaglianze. Senza interventi che, nel breve-medio termine, invertano l’attuale trend (sempre più ampia e la forbice tra i ricchi, sempre meno e sempre più ricchi, e i poveri sempre di più e sempre più lontani) il rischio che salti la coesione sociale è ormai alto. Forse non è nemmeno più un rischio.

Ma, aldilà delle parole, delle dichiarazioni “buoniste “di fine anno, cosa c’è di vero, soprattutto di possibile, da fare? Come far diventare una giusta e allarmata preoccupazione sociale una politica economica che preveda, sul serio, misure a ciò finalizzate?

Pickett sente in giro molte buone intenzioni ma poche idee chiare e costruttive. Esiste, ad esempio, un filone di pensiero che si oppone aprioristicamente ad ogni intervento redistributivo dei redditi in quanto mirante ad un’uguaglianza che distorcerebbe la meritocrazia. Rischierebbe di alterare una legge fondamentale del nostro stare insieme: chi è più bravo, fa più carriera e guadagna di più. Questo principio, premiando i meno bravi e aiutandoli, penalizzerebbe i più bravi, meno riconosciuti dal punto di vista economico. Una tesi comprensibile ma non condivisibile se rigida e fondamentalista. Sul presupposto di una società meritocratica, che quindi preveda classi sociali differenziate perché, in astratto, corrispondenti a diverse capacità individuali, ormai il capitalismo moderno, più o meno strattonato e spintonato dal filone socialista, ha riconosciuto un ruolo dello Stato di re-distributore delle ricchezze prodotte. Dunque si è acquisito il principio che esista un rettificatore della meritocrazia purché a vantaggio dell’intera comunità. Lo ripetiamo, a condizione che si crei davvero ricchezza e che questa sia redistribuita secondo meriti reali, non contaminati da privilegi, raccomandazioni, reati, posizioni di rendita ingiustificabili. Già il fermarsi qui farebbe storcere il naso a qualcuno: le due condizioni poste, infatti, nel nostro paese, ad esempio, nell’ultimo decennio sono mancate. L’Italia non ha più saputo creare valore nel suo complesso; ci siamo conseguentemente impoveriti con un aumento delle disuguaglianze. I primi a pagare la non crescita sono sempre i livelli più bassi dell’ascensore sociale. Inoltre, siamo convinti, ovviamente dividendoci tra due tesi opposte e simmetriche, che in Italia, in molti settori, nel pubblico per primo, la meritocrazia non esista e che la cultura sia quella del conservatorismo più becero dei privilegi e diritti acquisiti. I protagonisti della “presunta” non-meritocrazia sciorinano lunghi elenchi di scuse, ragioni, alibi per dimostrare che non è così e che questo è uno slogan per scaricare il problema generale del paese su pochi. Insomma una contrapposizione non virtuosa che ci porta al famoso NIMBY, più facile giudicare gli altri che non guardarci criticamente dentro. Detto ciò, per inquadrare lo stallo in cui ci dibattiamo, Pickett prova a provocare dei dubbi con delle ipotesi di soluzione. Proviamo a ragionare sui seguenti punti. Per buttarli, magari, nel cestino dopo averli meditati. Ma magari… anche no! Eccovi dunque un indice di titoli sui quali riflettere.

1) meritocrazia… Quella vera! Chi ha più talento, capacità, competenza deve essere riconosciuto dalla comunità ed essere gratificato nel suo ruolo e nei suoi redditi. Lo dice il mercato, anche quel mercato “regolato” previsto dal nostro modello di riferimento.

2) risorse per una redistribuzione più equa: innanzitutto una lotta all’evasione fiscale vera e non solo dichiarata. La tecnologia oggi, con l’incrocio delle banche dati, non ci dà più alcun alibi. Basta utilizzarla. Basta metterla davvero ai primi posti delle priorità.

3) una coesione sociale virtuosa: con le risorse recuperate sui due fronti citati, messa in atto da interventi mirati ad una redistribuzione del valore generato, meno differenziata, più a sostegno dei meno fortunati e dei più bisognosi reali.

4) un focus prioritario sui giovani: la redistribuzione dei redditi deve ridurre la forbice delle disuguaglianze supportando non solo e non tanto le classi anziane ma soprattutto i giovani, quelli che si affacciano alla vita lavorativa, oggi… meglio dell’incubo della disoccupazione quasi certa. Politiche giovanili (anche attraverso una riforma della scuola che avvicini la formazione al mercato, che faccia dialogare l’indirizzo scolastico con i bisogni del mondo del lavoro) non vuol dire diffondere slide con promesse che non saranno mai mantenute. Ma individuare strumenti reali che intervengano e modifichino un modello di convivenza che, oggi, penalizza i più giovani a vantaggio dei più vecchi. Marginalizzandoli dal sistema.

5) un modello di coesione sociale inclusivo, aperto a tutti e non soggetto passivo della rivoluzione tecnologica ma driver dell’innovazione e della creazione di nuovi mestieri adeguati ai nuovi bisogni e alla nuova realtà competitiva.

Pickett si ferma qui.

L’indice è già abbastanza corposo e sfidante. Ripartiamo da qui: da questi temi. Ognuno avrà le proprie opinioni, le proprie ricette, le proprie avversioni al mutamento. Ma almeno ci occuperemo della vita reale delle persone e non della “fuffa “astratta e partitica che purtroppo siamo costretti a subire tutti i giorni sui nostri media

Un po’ di sano pragmatismo insomma; un po’ di virtuosa voglia di stare insieme, tutti un po’ più felici e sorridenti. Anche quelli che, nell’auspicata migliore distribuzione della ricchezza, dovranno vedersi ridurre i loro guadagni diretti. Meglio un po’ più di soddisfazione di tutti che non la pseudo felicità di alcuni, molto pochi per la verità.

Insomma la riduzione delle disuguaglianze e la meritocrazia possono stare insieme, non sono un ossimoro! Almeno questa è l’opinione di Pickett.

O no? O stiamo sbagliando strada?

Buone meditazioni e buon anno.

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