Devo confessarlo: il termine Ozio mi ha sempre suscitato perplessità, lontananza, spesso una combinazione ossimora di invidia e irritazione. Forse sono stato educato al “fare” più che al contemplare. Forse me lo sono ritrovato nel Dna di famiglia. Fatto sta che ogni volta che amici, conoscenti, incontri della vita mi hanno “costretto” a fermarmi e a ragionare sull’Ozio, ho fatto fatica. Ho rischiato, spesso e volentieri, di fermarmi agli stereotipi. Di prendere scorciatoie valoriali mirate alla critica, alla contestazione, al rigetto per forme di ozio paragonabili alla stasi, all’astrazione non operosa, a forme comportamentali lontane da me anche se, in fondo in fondo, suggestive e affascinanti proprio per la mia incapacità a comprendere e valorizzare. Il fermarsi un attimo a guardarsi intorno; il sedersi su una panchina ad ammirare il mondo di fronte a me; il chiudere gli occhi e magari pregare dedicandoci del tempo e dell’attenzione senza lo stress di “dover fare in fretta”. Sono figlio di una generazione costruita sul “fare”, che per ottimizzare tempi e risultati si è forse persa un pezzo della qualità della vita. Non so se in modo irreversibile. Non so se per mancanza di attitudine o per miopia prestazionale. Certo, l’attività di contemplazione della natura e dell’irrazionale non è stata la cifra della mia vita. Anzi!

L’ho quasi scartata per paura, senso di inadeguatezza, timore di scoprire chi sa che cosa, smarrimento nel dover gestire i silenzi. Con questo non voglio dire che mi sia mancata la capacità di autoanalisi: l’ho frequentata e la frequento da anni. Mi è mancata la capacità di oziare in senso virtuoso… certo!

Ma forse proprio qui sta il punto chiave della questione.

Proviamo a riavvolgere il nastro e a tornare ad aspetti storico-linguistici. Per gli antichi romani l’Otium era l’attività privata, comprendente lo studio, la scrittura, il ritiro nella villa di campagna, che un aristocratico si permetteva in alternativa al Negotium il “non-ozio” cioè gli affari e gli incarichi pubblici. Cicerone, esautorato da ogni carica ad opera di Cesare, definiva il suo ritiro forzato dalla scena politica “ozio con dignità” presentando questo trascorrere il tempo in attività amene come l’ideale culturale delle classi agiate.

Per Seneca, l’ozio doveva essere anzitutto periodo di auto-miglioramento, non di dissolutezze.

Mentre i romani si affaccendavano in queste disquisizioni, gli ebrei praticavano sia il sabato, giorno di vacanza e di studio, sia durante l’anno sabbatico, il periodo a cadenza settennale in cui uomini, animali e terre riposavano, gli schiavi erano liberati e i debiti cancellati. Riavviare la vita a intervalli regolari e anche prima della vecchiaia, per coltivare talenti o affetti trascurati a causa del lavoro.

L’Ozio dunque come “momento” di pensiero distaccato dalla concitazione della quotidianità. Un momento di sosta per riflettere e ricaricare le batterie, senza l’ansia di “dover fare per forza qualcosa”.

I grandi filosofi della romanità – scrive Brian O’Connor nel suo saggio proprio sull’ozio intitolato “Idleness – A philosophical essay” (Edizione Princeton University – 2018): il testo che ha scatenato in Pickett queste riflessioni su un aspetto spinoso delle nostre vite – intendevano l’Otium come una opportunità di sottrarsi agli affari quotidiani per affrontare temi di radicale importanza: i principi della politica e della verità. L’ozio, per me, è semplicemente un sottrarsi. Punto. E’ una noncurante indifferenza alle grandi questioni e alle grandi sfide”.

Non quindi un disvalore, secondo il docente irlandese di filosofia dell’Università di Dublino, ma una scelta, addirittura virtuosa.

Nei secoli il significato di questo vocabolo si è trasformato in modo rilevante. L’oziare è diventato sinonimo di “non fare”, di non impegnarsi, di non produrre, di essere quasi un peso negativo per la società.

L’adagio “l’ozio è il padre dei vizi” nasce proprio sulle ceneri del virtuoso Otium latino.

La religione ci ha messo poi del suo: l’Ozio diventa uno dei vizi capitali. Il prendersi una pausa di meditazione costituisce una fuga, un estraniarsi dalle responsabilità di buon cittadino e di buon fedele.

L’avvento della società mercantile, delle prime forme di imprenditoria capitalista, dà il colpo finale all’antico concetto di Otium latino. La produttività, l’arricchimento, il “fare” diventano le icone dell’uomo nuovo, dell’uomo moderno. Bisogna partecipare, produrre, creare valore, senza Se e senza Ma. Con continuità, impegno, passione e responsabilità. Senza prendersi mai una sosta. Chi si ferma… è perduto! Materialmente ed eticamente.

Noi siamo cresciuti in questo contesto e l’Ozio, il fermarsi a pensare, è diventato un privilegio di pochi. In generale, un comportamento agnostico, negativo, quasi un costo improduttivo per la comunità.

Brian O’Connor provoca, nel suo libro, l’interlocutore con una considerazione forte, controcorrente: “L’ozio potrebbe non essere l’origine di tutti i vizi, ma, anzi, una forma di libertà, persino di resistenza nei confronti di un mondo che non consente tempi morti”.

L’analisi, al di là della sua condivisibilità, è stimolante: “Sappiamo tutti delle pretese del lavoro nei confronti delle nostre vite. Una volta si sperava che i progressi sociali e tecnologici avrebbero comportato meno lavoro, adesso siamo all’opposto. C’è questo bisogno di performance, questa competizione, la corsa a ottenere ammirazione. Sorprende piuttosto tutto l’armamentario teorico a sostegno del lavoro e della performance –scrive O’Connor – prendiamo Kant, Hegel, Marx, per dire: i loro scritti offrono formidabili argomenti a sostegno della necessità di rendersi utili. Ci ripetono che non siamo davvero umani se non sviluppiamo i nostri talenti in modo funzionale al lavoro. E ci spingono a pensare di poter ottenere gratificazione solo se facciamo così”.

O’Connor non mi convince. Mi affascina nella sua battaglia filosofica di difesa di uno “stato mentale” che non capisco, non provo, non tendo a raggiungere.

Però… però, forse, ha anche delle ragioni.

Al di là del suo esercizio intellettuale, noi tutti dovremmo essere più cauti nei giudizi, più capaci di uscire dalla logica alienante ed imperante di un vivere senza soste per competere di più e meglio. Per essere sempre all’altezza… chi sa di che cosa, di guardarci allo specchio senza recriminazioni.

Ozio non significa necessariamente Pigrizia, indolenza, “non curanza cupa e rancorosa”, tipica dell’accidia.

Può semplicemente significare il riappropriarsi del nostro tempo, del “dolce far niente”, che provoca pensieri, riflessioni, visioni dall’alto dell’albero e non sempre dal basso del marciapiede quotidiano.

C’è però una sfida pratica – scrive ancora O’Connor – superare lo schema dove il lavoro senza fine e la visibilità sociale sono aspetti chiave. Non ho suggerimenti politici ma credo che una società migliore toglierebbe questo fardello anziché appesantirlo. Prendo atto, tuttavia, che molte persone sono perfettamente felici nel mondo così come è ora e sono ben contente di vivere secondo questi valori”.

Ma, forse… anche no!

Insomma, senza avere la presunzione di voler esaurire un argomento di per sé inesauribile, Pickett si permette alcune considerazioni finali in libertà assoluta.

Il libro di Brian O’Connor mi ha aperto finestre di dubbio salutari. Convinto della supremazia del “facere” avevo sempre sottostimato o, peggio, irriso, i fautori del valore Ozio, anche in senso alto e virtuoso. Una sceneggiata, a mio parere, per nascondere pigrizia o “fancazzismo”.

Oggi quelle mie sicumere presentano delle crepe. Forse, trattato con cura e parsimonia, l’Ozio potrebbe aiutarci a conoscerci meglio, a essere più forti dentro, più consapevoli delle nostre fragilità nascoste e delle nostre debolezze manifeste.

“Chi dorme non piglia pesci” ma, forse, anche no. Chi dorme bene, con qualità, non spreca il suo tempo. Lo impiega meglio. Per alcuni, forse, l’equazione è la stessa. Parliamone comunque senza fissarci in concetti valoriali apparentemente forti e strutturati ma in realtà figli di insicurezze e fragilità non investigate con il tempo necessario: con parentesi di ozio salutari.

Proviamo a tornare dunque all’Otium latino. Chissà che, riportando al centro del nostro vivere quotidiano un insieme di pensieri non concitati e ansiogeni ma meditati e metabolizzati, non ci faccia uscire dal circolo vizioso del fare per fare. Tutti stressati dal dover dimostrare performance, efficienza e produttività.

Un “facite ammuina” collettivo che ci sta portando al disastro.

W l’Ozio dunque? No, non sia mai. Iniziamo però a conoscerlo meglio e a trattarlo con cura. Potrebbe riservarci piacevoli sorprese.

Comments (1)
  1. daniela trunfio (reply)

    18 Luglio 2018 at 10:45

    E’ bello iniziare la giornata in ozio ma con le tue considerazioni e quelli di O’ Connor.
    Ora vado a un appuntamento in assessorato la flanellando per le vie della città

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