Ad oggi, il 7% dell’energia globale viene utilizzata per l’alimentazione di enormi data center: la maggior parte di questi si trovano negli USA, più esattamente nel nord della Virginia.
Infatti, quasi tutti i messaggi, le immagini, i video prodotti sulla rete, vengono raccolti ed immagazzinati in enormi “spazi virtuali” al fine di essere conservati. Tuttavia, la quantità dei dati prodotti ha ormai assunto dimensioni faraoniche. Si consideri che dall’anno 0 al 2003 sono stati creati 5 exabyte, ovvero più di cinque trillioni byte. Nel mondo odierno, la stessa quantità di dati viene prodotta in soli due giorni. Mantenere una tale quantità di informazioni sulla rete ha un costo ambientale enorme. I data center presenti nel mondo devono funzionare 24 ore su 24, 7 giorni su 7 in modo da garantire costantemente la disponibilità dei dati all’utente e la maggior parte dell’energia utilizzata proviene da fonti non rinnovabili. Il consumo di energia è immenso ed in continua crescita.

Nel 2014 i data center statunitensi hanno consumato la stessa quantità di elettricità di 6,4 milioni di famiglie Chi sono dunque i responsabili di quest’aumento vertiginoso dei dati? Tutti: utenti privati, aziende, enti di ricerca e pubbliche amministrazioni.

Il 68% dei dati presenti all’interno dei data center viene prodotto da privati cittadini e la maggior parte di questi non servono più, come i profili social network inattivi, oppure indirizzi di posta elettronica caduti nell’oblio, gli esempi sono innumerevoli. Infatti, secondo una ricerca del 2016, promossa da Big Data Takedown, l’80% delle persone non ha bisogno dell’80% dei dati che ha prodotto. Un discorso in parte diverso va fatto per le aziende che hanno la necessità di archiviare dati, alcuni dei quali devono essere conservati per legge. Ma rimane il fatto che all’interno dei database aziendali una grande quantità di dati sono inutili. La maggior parte dei files sono doppioni e questo fa aumentare i costi di archiviazione, causando tempi di elaborazione maggiori e rendendo più difficile reperire le informazioni rilevanti. Non stupisce allora che le aziende si affidano ai servizi di archiviazione in cloud in quanto i costi di mantenimento sono molto inferiori rispetto ad un database interno che costa decine di migliaia di euro. Un terabyte di spazio in cloud costa circa 20 euro al mese, un risparmio rilevante.

Proprio per contenere l’impatto ambientale dei data center, alcune aziende come Facebook e Apple si stanno attivando affinché gli stessi vengano interamente alimentati con energia prodotta da fonti rinnovabili. Altre grandi compagnie, invece, tentennano. Greenpeace denuncia da tempo questo consumo eccessivo di energia elettrica da parte dei data center sostenendo che “Nonostante i miglioramenti nell’efficienza energetica e l’impegno a usare solo energie rinnovabili, la transizione al cloud potrebbe far aumentare la domanda di combustibili fossili”. Fortunatamente, in questo settore, l’Italia è in prima linea nello sviluppo di data center a basso impatto ambientale. A Cremona è nato Green Email Cloud ed è sviluppato da MailUp, eco4cloud e l’Icar-Cnr di Cosenza. L’elemento caratterizzante di questo data center è la sua estensione all’infinito e il risparmio energetico è del 50% con una dispersione di 220 mila tonnellate di CO2 in meno rispetto a un normale data center.

Aldilà delle grandi imprese è però certo che tutti noi possiamo contribuire in merito. Come sta avvenendo nel riciclaggio della spazzatura fisica noi possiamo smaltire la nostra spazzatura digitale. Come? Eliminando mail, profili di social network inutilizzati e cosa più importante, archiviando in cloud soltanto elementi che riteniamo importanti o che siamo tenuti a conservare obbligatoriamente perché, per esempio, prescritto dalla legge.

Jurghen Dema

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