Alle elezioni del 2013 l’ Italia arriva dopo 5 anni di crisi , una situazione politica molto confusa, il pressing asfissiante di Bruxelles.
Gli italiani, ognuno a suo modo, consapevoli della situazione vanno a votare e producono un parlamento così composto:
Su 630 parlamentari, solo 80 hanno più di 60 anni, 416 sono i neoeletti senza know how specifico e nessuna assistenza tecnica da parte dei partiti,
43 sono imprenditori, 5 sono operai, due terzi degli eletti M5S hanno tra i 20 e i 30 anni. Questa compagine avrebbe dovuto affrontare e risolvere la drammatica crisi del paese. I risultati li conosciamo.
Credo che alla base di questa situazione ci sia la crisi dei partiti che non riescono più a operare una rigorosa selezione del ceto politico.
Inoltre, 630 parlamentari così assemblati determinano la perdita di centralità del parlamento. La centralità legislativa.
A vantaggio di un decisionismo dell’escutivo, più dell’80% dei provvedimenti legislativi dell’attuale legislatura sono di provenienza governativa o del partito di maggioranza e soltanto con il consenso di questo possono essere efficacemente proposti gli emendamenti in commissione o in Aula.
Il parlamento è, dovrebbe essere, il luogo della discussione, del dibattito, della mediazione tra diverse sensibilità sugli interessi generali del paese. E’ diventato un votificio su provvedimenti governativi. Le istituzioni del sistema rappresentativo rimangono apparentemente intatte, ma si svuotano della loro funzione e sono superate dal populismo che viene sia dall’ alto che dal basso, deformando la democrazia  che rischia di diventare una pseudo democrazia. Il populismo che propone come rimedio, a questa situazione, il taglio dei costi della politica.
Non capendo che la politica dei tagli, chiedere alle aziende, non ha mai fine.
La Storia dell’Italia parlamentare può essere descritta come una parabola che muove da uno Stato lontano dal Popolo (quello risorgimentale), che viene trasformato nello stato democratico del popolo (parzialmente in età giolittiana, più decisamente nei primi anni del primo dopoguerra), che, attraverso l’esperienza del regime totalitario di massa, si sviluppa nella prima repubblica verso lo stato sociale (lo Stato del popolo per il popolo), per terminare oggi nello Stato neoliberale senza il popolo e senza la sua rappresentanza se non nei momenti elettorali, per arrivare, nella sua traettoria finale, alla post democrazia. Un’altra parobola aiuta a capire la crisi della democrazia, quella dei Partiti, che erano Partiti di esigua èlite, per diventare Partiti di massa, ideologici, per essere oggi Partiti personali che hanno chiuso le scuole di partito perché il capo non vuole ombre. Sembra che il popolo sia alla ricerca di un demiurgo capace di risolvere tutti i problemi con un colpo di bacchetta magica.
E’ questa ricerca affannosa di un capo che rischia di minare le basi della democrazia e le avvisaglie ci sono tutte, perché i tentativi frequenti di orientare
l’asse politico a vantaggio dell’esecutivo e a svantaggio del legislativo sono il segnale che la democrazia come l’abbiamo vissuta non piace più.
Per non parlare della democrazia scaturente dall’agorà interattiva dove un capo decide quello che è giusto.
La democrazia è un sistema complesso e non è con le semplificazioni che la si potrà salvare. Mi rendo conto che questo modo di ragionare non è più attuale, non è cool direbbero quelli dei talk, ma se non partiamo dalle analisi di quello che abbiamo sotto gli occhi come  possiamo sperare di affrontare e superare la confusione che ci circonda?

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