Viviamo un periodo convulso, ansiogeno, drammatico nel dilagare di propaganda, ignoranza, celodurismo e dintorni. I temi dell’immigrazione, della governabilità, dell’Europa (“all’inizio della fine” per alcuni), della coesione sociale e dei suoi rischi di tenuta, sono affrontati con una visione “alla giornata” condita di slogan, Twitter e semplificazioni terrorizzanti. La superficialità impera con uno spazio di vita di al massimo 24 ore!

Siamo bombardati da messaggi che trattano di persone, di esseri umani in difficoltà, a rischio di sopravvivenza, come fossero numeri, birilli, oggetti su cui speculare per finalità politiche o di potere.

Giuseppe De Rita, ancora una volta, ci fotografa con lucidità, cinismo e, purtroppo questa volta, con poco ottimismo per il futuro, questa nostra inquietante attualità.

Insieme ad Antonio Galdo ha da pochi giorni mandato in libreria il suo ultimo saggio “Prigionieri del presente” (Passaggi Einaudi), un duro e vibrante monito ai rischi connessi con questo “presentismo” dilagante.

Cosa significa questo suggestivo neologismo?

Ragionare sempre e soltanto sul quotidiano. Non alzare mai la testa. Non cercare di andare più in là ponendosi domande, obiettivi e speranze un po’ più a lungo termine. Se questo è un difetto a livello individuale, diventa una tragedia a livello collettivo. Se la politica ragiona sul consenso a “brevissimo”, i risultati non potranno essere che conseguenti. Grandi applausi sull’immediato (“rispondo ai bisogni emotivi, quelli dello stomaco di oggi, …poi vedremo!”) ma nessuna visione del futuro. Soprattutto nessuna azione mirata ad intervenire sui temi strutturali del nostro sistema paese: riduzione del debito; una vera e incisiva Spending Review; una politica per l’immigrazione; un progetto per la nuova Europa. Tutte scelte onerose, cariche di sacrifici e non di demagogia d’accatto.

Meglio ragionare sull’oggi con grida, comizi, slogan, manifestazioni di forza formale senza alcuna visione prospettica. Il paradigma della miopia. Torna drammaticamente alla ribalta l’antica differenza tra uno statista (“prima gli interessi del paese poi quelli del partito e/o quelli personali”) e un uomo politico normale (“prima il partito, l’ambizione personale, i voti “a tutti i costi”, poi gli interessi della nazione”).

Per De Rita e Galdo “il presentismo è il male del nostro tempo ed è un morbo che ha contagiato la politica e ha cambiato il segno dell’intera modernità. Sconvolgendo la dimensione pubblica come quella privata, le istituzioni e le imprese, fino alla sfera dei sentimenti. E’ un mutamento antropologico che ha fatto “prigioniero” l’uomo occidentale. La modernità dunque da sfida che presentava rischi e opportunità è diventata né più né meno che una “trappola””.

La differenza vera e nuova rispetto ai precedenti saggi del Presidente del Censis è l’assenza di speranza, di una visione positiva del futuro: “Non si intravede – scrivono De Rita e Galdo –  né nella solidità della tradizione né nelle forze che attraversano la modernità cercando di costruire contrappesi e nuove regole, alcun segnale di arresto di tale trend”.

Inoltre, la tecnologia ci sta contaminando negativamente il nostro modo di parlare, di esprimerci, di pensare “Gli italiani parlano sempre peggio – si legge nel testo – in privato e in pubblico: hanno imbarbarito la loro lingua nazionale e hanno adottato la tachigrafia di WhatsApp che nella smania del linguaggio presentista usa sigle e deforma pronomi”.

Tutto in breve, tutto sincopato, tutto talmente sintetico che non si riesce più ad articolare dei ragionamenti ma si partoriscono soltanto degli slogan, più o meno efficaci, più o meno di cattivo gusto. Si abitua il nostro cervello a costringersi a sintesi, per lo più superficiali, perdendo via via quella straordinaria opportunità-risorsa che era costituita dall’apprendere delle nozioni, schedarle secondo il nostro vissuto, la nostra cultura; elaborarle e trasformarle, raggruppandole o spacchettandole in un ragionamento che ci serviva per confrontarci con gli altri, soprattutto se portatori di idee e opinioni diverse dalle nostre.

Il nostro cervello si modifica e subisce “un uso improprio” atrofizzando certe sue caratteristiche, come l’attenzione.

Dario Di Vico, sul Corriere della Sera, recensendo il saggio di De Rita e Galdo, ha ripreso un passaggio chiave del testo “Nel 2000 eravamo capaci di prestare attenzione per 12 secondi consecutivi, oggi a stento riusciamo ad arrivare a 8. Siamo  meno concentrati dei pesci rossi che arrivano a 9”.

Un disastro epocale in cui presentismo e necessità di sintesi trovano nella tecnologia digitale un alleato formidabile. Sempre connessi, possiamo intervenire, 24 ore su 24, su qualsiasi argomento, su qualsiasi evento, dicendo la nostra, scrivendo dei Twitter, facendo fotografie; rispettando sempre e comunque l’equazione della velocità, sintesi estrema, e stretto legame con “l’Oggi”, con quanto ci sta accadendo intorno in questo preciso istante!

Mai cercando di alzare lo sguardo, fermandoci un minuto e provando a capire meglio dove stiamo andando, con una visione scevra dalla necessità di un consenso immediato.

Se questa è la modernità, allora …

Pickett lascia a ciascuno di Voi riempire lo spazio vuoto delle conseguenze. Non serve rimpiangere il passato, pensare che fosse migliore di questo inquietante presente. Nello stesso tempo perché non iniziare a darsi degli “Stop”, prima di finire a 200 all’ora contro un muro.

Dipende solo da noi, dai nostri comportamenti. Dalla nostra pigrizia o dalla nostra lucida volontà di cambiamento virtuoso.

Un’ultima riflessione reduce da una assemblea di soci di una associazione professionale. Una comunità quindi culturalmente e socialmente selezionata ed elevata, presuntivamente composta di esseri umani attenti, curiosi, non “prigionieri” della modernità, del presentismo e della rincorsa sincopata alla sintesi migliore.

Durante l’intervento del presidente (ma il fenomeno non è cambiato durante la successiva discussione) più della metà dei presenti intorno al tavolo, guardava il suo smartphone, lavorava al suo pc, smanettava sul suo device. Non era neanche un calo di attenzione dopo gli 8 secondi citati da De Rita, era proprio il disinteresse maleducato della platea all’ascolto. Capito il titolo dell’argomento (in 2-secondi-2) meglio occuparsi d’altro.

Colpa del relatore, dirà qualcuno. Può darsi, ma da testimone oculare posso affermare “solo in parte”.

La colpa è nostra, del nostro angosciante bisogno di “fare qualcosa”, di essere “presenti” nell’attualità, nel partecipare al sincopato dibattito dei “I like”.

Torniamo, signori miei, alle vecchie regole del Far West: all’entrata del Saloon si lasciavano le pistole in una cassetta. “Dentro” non erano ammesse. Dovremo fare la stessa cosa con gli smartphone: fin da subito; se no ci faremo male sul serio.

P.S. L’ultimo esempio della tragedia culturale innescata dal trinomio ignoranza-fretta-presentismo ci arriva da Roma, dal Consiglio Comunale della capitale. “Non avevo capito che si votava su Almirante” si è difesa la consigliera comunale di Roma, la grillina Eleonora Guadagno, che aveva votato SI alla mozione di Fratelli d’Italia per intitolare una strada della Capitale al politico missino. “Votare a favore è stato un errore, ma correvo, venivo da fuori … “.

Insomma un voto a sua insaputa.

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