La regola adottata appare sempre la stessa… da secoli: sei un leader di un Paese e non riesci a risolvere i problemi esistenti, rischiando di perdere popolarità e consensi?

Inventati un nemico oppure sposta l’attenzione dei tuoi concittadini su altri temi

Giorgia Meloni e i suoi alleati di governo pare abbiano scelto la seconda opzione: proporre una riforma costituzionale, il Premierato appunto, uno strumento che possa finalmente garantire al Paese la tanto agognata stabilità.

Uno strumento in mano ai cittadini per decidere loro e non i partiti, il Presidente del Consiglio migliore in quel momento storico e politico.

Un grande annuncio quindi, un grande progetto riformatore contro l’esproprio della volontà popolare da parte della partitocrazia.

Tutto bene dunque?

Non proprio.

Salvo che la mossa della maggioranza assomigli tanto ad una “grande arma di distrazione di massa” (Carlo Calenda, Corriere della Sera, 6.11.2023) sembrerebbe proprio di sì.

Nella realtà la situazione è “leggermente” diversa.

In Italia ci sono tre priorità molto importanti da studiare e cercare di risolvere: il ruolo del Parlamento e cioè un bicameralismo perfetto che non funziona più; un federalismo da ripensare e una pubblica amministrazione da riorganizzare come cultura e come strumenti digitali.

Questo progetto di riforma parla d’altro, sposta l’attenzione, non riguarda il buon funzionamento dello Stato.

Sembra piuttosto una rivisitazione delle regole di un gioco tutto interno alla politica.

Cerchiamo allora di capirne meglio il contenuto di questa proposta di riforma costituzionale, per farci un’idea in merito.

Il testo si compone di cinque soli articoli ma introduce diverse importanti novità: in primis le modifiche agli articoli 92 e 94 della Costituzione, prevedendo l’elezione diretta del Premier.

Dopo il via libera del Consiglio dei Ministri, la riforma è approdata in Parlamento. L’art. 138 della nostra Costituzione prevede che: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi e sono approvate a maggioranza assoluta”.

In questo caso è possibile richiedere un passaggio popolare, indicendo un Referendum.

Il Referendum non si può avviare se la legge fosse approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere con la maggioranza dei 2/3.

I nostri “Padri Costituenti” hanno voluto dunque costruire un percorso articolato e meditato anche nei tempi di attuazione per le possibili riforme costituzionali, combinando delle delibere parlamentari con una possibile-probabile chiamata popolare ad un Referendum nel merito.

Attualmente alla Camera, la maggioranza di Centro-Destra, può contare su 238 voti, al Senato su 116: la soglia richiesta per evitare le urne referendarie è di 136 voti.

Qualora il Parlamento approvasse la riforma, con la procedura sopra specificata, il Referendum potrebbe tenersi nel 2025.

In ogni caso, la riforma entrerà in vigore dalla prossima legislatura o dal primo scioglimento delle Camere dopo l’approvazione.

Veniamo al merito dei cinque articoli della proposta.

Il Premier verrà eletto a suffragio universale e il suo mandato durerà cinque anni.

Non sarà più il Capo dello Stato, quindi, a nominare il Presidente del Consiglio: si limiterà ad assegnare, ratificandolo, al Premier, il compito di formare il Governo.

Si voterà con un’unica scheda contestualmente al rinnovo delle due Camere.

Nella riforma viene introdotto anche un premio di maggioranza del 55%.

Sarà necessario che il Parlamento proceda ad una riforma della legge elettorale coerente con la riforma costituzionale, tenendo a mente che i premi di maggioranza devono essere disciplinati secondo meccanismi che salvaguardino sempre il principio di rappresentanza.

Il testo prevede anche una norma denominata “anti-ribaltone” che attribuisce espressamente al Presidente della Repubblica la possibilità, per una sola volta, nel caso di un Premier che non riesca ad ottenere la fiducia dal Parlamento, di attribuire l’incarico ad “un parlamentare eletto con la maggioranza che porti avanti il programma del Premier uscito dalle urne”.

Questa norma esclude dunque la formazione di esecutivi tecnici come quelli che hanno caratterizzano l’ultimo decennio della nostra politica nazionale.

Qualora anche il secondo Premier non dovesse ottenere la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica le scioglierebbe e si tornerebbe al voto (si prevede anche la riforma dell’art. 88 della Costituzione in quanto non sarà più possibile sciogliere soltanto una Camera).

Il Presidente della Repubblica si vedrebbe anche ridotto il potere di nomina dei senatori a vita (modifica dell’art. 59) . Non ne potranno essere più nominati di nuovi.

Se la riforma dovesse essere approvata, soltanto gli ex Presidenti della Repubblica potranno diventare senatori a vita.

La proposta del Governo Meloni ha scatenato moltissime critiche: la principale è quella che la riforma modificherebbe gli equilibri tra i poteri del Presidente della Repubblica e quelli del Presidente del Consiglio, a favore di quest’ultimo.

Secondo alcuni costituzionalisti l’aspetto negativo della proposta è ancora un altro, stando almeno alla versione approvata dal Consiglio dei Ministri: il Premier eletto sarebbe in realtà debole nonostante l’investitura popolare.

Nonostante le grida di “svolta autoritaria” il vero rischio sarebbe quello di un Premier in mano ai ricatti di questo o di quel partito della maggioranza, senza il potere di tenerli compatti minacciando lo scioglimento delle Camere.

Secondo questo filone interpretativo, l’esito della riforma non sarebbe l’autoritarismo, ma il caos (Francesco Clementi, Corriere della Sera, 4.11.2023).

Probabilmente l’elezione diretta del Premier potrebbe funzionare in un contesto bipartitico mentre, come nel nostro caso, in presenza di governi di coalizione, l’elezione diretta non stabilizzerebbe alcunché, anzi!

I critici aggiungono che la norma “anti-ribaltone” potrebbe dar vita a scenari inquietanti e complessi tipo quello di patti segreti, non dichiarati agli elettori quindi, stipulati fra i leader della coalizione prima delle elezioni: accordi che prevedono una staffetta.

Il candidato che ha più probabilità di vincere attraverso il voto popolare, inizia la legislatura, poi, a metà, si dimette e lo sostituisce il sottoscrittore del patto segreto (Angelo Panebianco, Corriere della Sera, 6.11.2023).

Da notare, ancora, che il premierato non ha altri esempi in tutta Europa: l’unico paese che l’abbia introdotto è stato Israele negli anni ’90 quando, poi, dopo tre elezioni, è stato abrogato per una sostanziale inefficienza operativa.

Una proposta alternativa viene proprio da una parte delle opposizioni che invocano una revisione della riforma sul modello del premierato tedesco: un modello costituzionale che dal 1990 ha prodotto quattro cancellieri invece dei nostri quattordici Presidenti del Consiglio e dieci governi invece dei nostri ventidue.

Perché, si sostiene, non optare per un sistema come quello tedesco che attribuisce al Cancelliere eletto il potere di scegliersi i ministri?

Insomma, la questione è molto aperta: il dibattito parlamentare si presenta infuocato.

La previsione è che l’attuale maggioranza non ottenga i 2/3 dei voti favorevoli tali da evitarle il rischio referendario.

Finora, nella storia recente del nostro Paese, la chiamata alle urne per la conferma di una riforma costituzionale, ha “distrutto” i promotori.

Le statistiche ci dimostrano che in quella tipologia di referendum vanno a votare soltanto i dissenzienti che quindi ottengono facilmente il risultato di non far passare la riforma e di “picconare” il leader che l’ha proposta.

In un mondo complesso come quello che stiamo vivendo, le scorciatoie normative mirate ad un presunto efficientismo, non portano da nessuna parte.

L’uomo solo al comando, è stato dimostrato in molte situazioni, non porta risultati, anzi, irrigidisce il sistema con il rischio anche di derive autoritarie e antidemocratiche.

Oggi di fronte ai due fenomeni chiave che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni, la tecnologia della comunicazione e dell’informazione poi diventata digitalizzazione da una parte e la globalizzazione dall’altra, i confini della complessità, come scrive Gianmario Verona nel suo ultimo saggio “Capaci di decidere” (Egea), rendono quasi impossibile prevedere il futuro e molto più difficile, comunque, prendere decisioni “sagge”.

La complessità e l’incertezza che ne deriva possono favorire nell’immaginario collettivo l’idea salvifica dell’uomo risolutore, mentre invece, la complessità attuale per essere compresa, interpretata e sciolta, richiede letture diverse, pensieri laterali, competenze che si integrano.

Più che l’uomo forte, serve l’uomo aperto, che prima di decidere sia capace di ascoltare.

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