Il dubbio e l’angoscia stanno contaminando tutti noi.

Anche se si riuscisse ad arrivare ad un miracoloso cessate il fuoco, evitando così ulteriori e terribili spargimenti di sangue, poi come si potrebbe condividere una soluzione di pace?

Anche l’eventuale (è davvero difficile immaginarlo) annientamento dell’organizzazione di Hamas, come potrebbe risolvere il tema legato agli oltre 2 milioni di palestinesi che hanno abitato fin d’ora nella striscia di Gaza, rasa al suolo dal bombardamento israeliano?

Su quali basi si potrebbe ipotizzare una pace tra due popoli che, come sappiamo bene, da quasi 80 anni si scontrano sul loro diritto ad esistere e ad avere un territorio nazionale reciprocamente riconosciuto?

Il nodo sembra irrisolvibile e non solo per il tempo trascorso invano, ma anche per la oggettiva difficoltà di individuare una piattaforma negoziale che sia in linea di principio accettabile sia per gli israeliani sia per i palestinesi.

Prima di abbandonarci alla disperazione e arrenderci di fronte alla impossibilità di una pace duratura (l’attuale conflitto potrebbe innescarne altri, anche fatali per l’umanità, in questo momento di totale disordine internazionale), proviamo a fare un esercizio intellettuale: a tornare ad una data fatidica delle relazioni tra i due belligeranti.

Nel luglio di 23 anni fa, Bill Clinton, in prossimità della scadenza del suo mandato presidenziale, sfiorò il successo, arrivando ad un pelo da un miracoloso accordo tra le due parti.

Parliamo del summit che avvenne nel luglio del 2000 a Camp David, una delle residenze presidenziali nell’area montuosa del Maryland settentrionale.

Clinton ospitò a Camp David l’allora Primo Ministro israeliano Ehud Barak e il leader palestinese Yasser Arafat: sperava di metterli d’accordo  e di passare così alla storia!

In quelle quasi due settimane di trattative “blindate”, i due storici avversari non si incontrarono mai da soli, pare per un diniego rigoroso di Barak.

Tutti gli incontri avvennero tra le delegazioni dei due paesi e il team di diplomatici messo a disposizione dei contendenti da Bill Clinton.

Non ci fu mai, in nessun’altra occasione, un momento storico in cui l’obiettivo sintetizzato nello slogan “due popoli, due nazioni” andò vicino al realizzarsi.

Il summit, invece, fallì nonostante gli sforzi di tutti i protagonisti: mediaticamente e politicamente passò il messaggio (oggi, come vedremo, molto più complesso e contraddittorio) che l’accordo saltò per colpa di Arafat.

La delegazione israeliana arrivò ad offrire a quella palestinese la restituzione di tutti i territori contenuti nella striscia di Gaza, il 91% di quelli della Cisgiordania e in più, e questo fu il clamoroso passo in avanti che illuse tutto il mondo… per qualche giorno, l’amministrazione sulla parte est di Gerusalemme.

Clinton appoggiò la proposta di Barak accompagnando quell’ipotesi di natura geografica (la restituzione dei territori) con la garanzia di copiosi investimenti e indennizzi per tutti e due i contendenti e soprattutto per quei palestinesi e per quegli israeliani che a seguito di quella bozza di intesa avrebbero dovuto rinunciare alle loro case, ai loro insediamenti, alla loro terra.

Nel luglio di quell’anno a Camp David si era quasi riusciti a trovare la giusta combinazione tra aspetti geografici, aspetti politici, aspetti religiosi e soprattutto aspetti economici.

I palestinesi dovevano essere messi in condizione di vivere meglio, con una qualità della vita superiore, in uno spazio territoriale libero ed indipendente, senza muri o sorveglianze di terzi.

Clinton, preso atto del rifiuto di Arafat, dichiarò pubblicamente che il leader palestinese si era assunto la responsabilità di aver buttato al vento l’occasione di creare finalmente quello stato palestinese tanto agognato.

Ripartiamo dunque da quel summit di 23 anni fa e proviamo a verificare se il contenuto di quella lunga, faticosa ma creativa negoziazione, non possa offrire anche 23 anni dopo una buona base di partenza per pensare ad una ragionevole exit strategy dell’attuale conflitto.

Per valorizzare al meglio quell’esperienza del grande lavoro portato avanti dalle due delegazioni presenti a Camp David, sotto la regia di Bill Clinton, può essere utile integrare la ricostruzione storica di quei giorni con una versione più aggiornata e critica rispetto alla vulgata che aveva, come detto, attribuito ad Arafat tutte le responsabilità di quel fallimento.

Il corrispondente di France 2, a Gerusalemme, in quel periodo, il giornalista Charles Enderlin, due anni dopo scrisse una cronistoria di quel vertice (“Le rěve brisé” – Fayard, Parigi 2022), ribaltando i giudizi, forse troppo di parte, che fino a quel momento erano stati dati sulle ragioni del fallimento della trattativa.

Un lungo capitolo del libro narra proprio, ora per ora, gli sviluppi di quel vertice ribaltando le responsabilità di chi lo fece fallire.

Secondo Enderlin “In nessun momento Arafat si è visto proporre lo stato palestinese su oltre il 91% della Cisgiordania e questo senza che mai gli sia stata riconosciuta piena sovranità sui quartieri arabi di Gerusalemme e su Haram Al-Sharif, il monte del Tempio… A differenza di quanto affermato mediaticamente, i negoziatori palestinesi, a Camp David non hanno mai preteso il ritorno in Israele di 3 milioni di rifugiati. Le cifre discusse durante i colloqui variavano da qualche centinaia a qualche migliaia di palestinesi, autorizzati a tornare nei loro territori all’interno dei confini dello stato di Israele”.

Fu invece la rigidità di Barak a mettere le basi per l’insuccesso del negoziato.

Secondo Enderlin invece di far saltare il tavolo, visti i risultati acquisiti in quella negoziazione, sarebbe stato opportuno, magari dopo una pausa di riflessione, riprendere le trattative. Invece – sempre secondo il giornalista francese – Barak si limitò a scaricare su Arafat la responsabilità dell’insuccesso e il Primo Ministro israeliano si dedicò nei mesi successivi a rivelare al mondo il “vero volto” di Arafat: un terrorista assassino.

Non si parlò più di una trattativa, ma di dimostrare che la pace era impossibile per colpa dell’OLP.

La storia non è Magistra Vitae però conoscerla aiuta a districarsi meglio nella complessità dell’oggi.

Perché Washington e l’Unione Europea non ripartono proprio dal punto in cui nel luglio del 2000 a Camp David la trattativa si interruppe?

Perché non valorizzare il lavoro svolto dagli sherpa delle varie delegazioni presenti a Camp David?

Un cessate il fuoco garantito e sorvegliato dai caschi blu dell’Onu con la ripartenza di una trattativa fra gli israeliani (con un nuovo Primo Ministro) e i palestinesi (con una nuova leadership al posto di quella di Abu Mazen) potrebbero ridare speranze a tutto il mondo di disinnescare una bomba che altrimenti potrebbe davvero avere effetti devastanti.

Giova anche ricordare, in questa sede di valorizzazione di pezzi della storia di questo tragico conflitto, che nel 2006 proprio nei mesi successivi alla decisione di Sharon di restituire importanti territori ai palestinesi, dischiudendo una nuova speranza di pace, l’indimenticabile Marco Pannella ci ammonì tutti con una provocazione: “Non illudiamoci, non sarà questa la soluzione di un conflitto che non può essere risolto con lo slogan “due popoli, due nazioni” perché i palestinesi rivogliono quel territorio che oggi è occupato dallo stato di Israele. L’unica soluzione – e questa fu la creativa provocazione di Pannella – è che Israele venga incorporata nell’Unione Europea diventandone a tutti gli effetti uno stato membro”: in tal modo protetto e legittimato”.

Sembrava una follia messa sul tavolo da un provocatore velleitario, ma potrebbe essere anche stata una lucida follia di un provocatore visionario.

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