Le mode sono sempre pericolose.

Anche se comportano condotte virtuose e civilmente evolute.

C’è sempre il rischio che esista qualche regista “occulto” che manovra i flussi informativi, contamina le opinioni e stimola i movimentisti che scendono in piazza.

Buoni maestri o cattivi maestri?

Il dubbio lo si può sciogliere soltanto quando, nel tempo, si vedranno gli effetti di quelle nuove “mode”.

Il rischio del conformismo è sempre più alto: la stampa mainstream monopolizza spesso l’attenzione dei lettori. La Rete moltiplica l’accesso all’informazione: ma quale informazione?

A tutti questi delicati e spinosissimi temi si aggiunge un fenomeno nato, tanto per cambiare, negli Stati Uniti e denominato Woke, il risveglio cioè, lo “stare svegli”, il diventare “consapevoli” delle ingiustizie sociali e raziali in essere.

Un movimento tutto incentrato su un’ideologia che fa dell’appartenenza raziale o identitaria il metro su cui giudicare ogni individuo e sulla necessità di prassi compensative delle colpe occidentali del passato.

In un recente studio, due specialisti nell’analisi dell’evoluzione dei comportamenti del management aziendale nel mondo, Nicolai J. Foss (Copenaghen Business School) e Peter Klein (Baylor University) sottolineano che lo sviluppo del fenomeno denominato Woke si sia sviluppato ad una velocità assolutamente insolita e imprevista.

La differenza tra Woke e determinate azioni tradizionali, risiede – secondo i due professori – nel come l’obiettivo non sia più quello di promuovere una forza lavoro più diversificata, ma quello di cambiare il modo con cui le persone interagiscono e “smantellare il potere dei gruppi privilegiati”.

Il saggio di Foss e Klein ci offre squarci di una lettura stimolante e imprevedibile del fenomeno Woke.

Stiamo forse, si chiedono i due studiosi, diventando i conformisti dell’anticonformismo?

Rileggere il passato con i valori etici del presente scatena la “cancel colture” con tutte le conseguenze che abbiamo davanti agli occhi ormai in tutto il mondo: alcune, addirittura grottesche a nostro avviso, come la modifica e sostituzione di certi termini utilizzati in romanzi del passato o addirittura nei libri della saga di 007, in quanto vocaboli non in linea con i nuovi indirizzi lessicali del Woke.

Foss e Klein si chiedono anche, provocatoriamente, se il diventare tutti seguaci della Woke Theory non rappresenti un rischio di contaminazione negativa del nostro modello economico basato sul capitalismo.

State a sentire: il capitalismo Woke (quello basato, come abbiamo appena detto, su un’ideologia che fa dell’appartenenza raziale o di genere il metro su cui giudicare ogni individuo) ha trovato “rapidamente sponda in grandi imprese quotate in borsa.

Esse ormai non si limitano a valorizzare la diversità, ma mettono in atto forme più o meno velate di censura dei loro stessi lavoratori, spingendo inoltre sugli stessi valori nella promozione verso l’esterno, a cominciare dalla pubblicità”.

Sono bastati cinque anni per radicalizzare questa cultura in molti grandi gruppi americani.

Negli Stati Uniti, molte polemiche si sono concentrate su grandi imprenditori come George Soros o Charles Koch che usano le proprie fondazioni per sostenere l’opinione pubblica affine alle proprie convinzioni.

La ricerca di Foss e Klein registra che ogni impresa inclusa nella classifica Fortune 100 ha un programma di Diversity, Equality and Inclusion: “il fenomeno è veramente pervasivo. La maggior parte delle imprese tecnologiche americane ha donato milioni di dollari a favore di charity attive sui temi della racial justice, come Black Lives Matter. Nel  marzo 2022, in occasione dell’ennesimo dibattito sull’uso delle toilettes e sull’accesso agli sport da parte delle persone transessuali, oltre 200 imprese (da Apple a Disney, da CityGroup a Google, da Nike a United Airlines) hanno ritenuto di dover prendere posizione con una lettera aperta”.

Gli autori ci spiegano come questa “moda” sia ormai entrata nel modo di pensare e di agire di  moltissimo top manager di multinazionali americane.

L’impressione è che le pressioni vengano dagli azionisti, ma non sempre è così: la ricerca approfondisce come la spinta di questa evoluzione quasi filosofica arrivi anche e soprattutto dall’interno dell’azienda, dagli stessi manager: “I quadri aziendali – scrivono Foss e Klein – possono guidare il cambiamento strategico. L’adesione alla causa Woke non è un requisito dettato dalla regolazione, ma un insieme di credenze rapidamente filtrate nella cultura aziendale. Inoltre, le imprese hanno generalmente creato uffici e dipartimenti specializzati per gestire i programmi di promozione della diversità, selezionando profili professionali ad hoc”.

Quale amministratore delegato oggi si potrebbe permettere il lusso di bloccare, inibire, sanzionare indicazioni, anche strategiche per l’azienda, se queste giungessero da persone, cioè manager, a cui è stata espressamente delegata (magari proprio dall’amministratore delegato in un momento visionario o, banalmente, di marketing) la responsabilità di introdurre in azienda i nuovi principi filosofici del Woke?

Il tema agghiacciante che dobbiamo dunque porci è il seguente: stiamo forse diventando dei talebani di un anticonformismo a volte d’accatto?

Foss e Klein ci fanno riflettere su un dato: “Quanto più ci si sposta da metriche di performance “dure” come la reddittività o il valore di mercato, a misure più “morbide” come il contributo alla giustizia sociale in senso lato, tanto più i  manager sono protetti dal giudizio del mercato e degli azionisti. Inoltre, l’adesione alla causa Woke può corroborare l’immagine non solo dell’azienda, ma proprio del manager, oltre a rappresentare una sorta di assicurazione rispetto alla politica delle risorse umane: è un modo per ridurre il contenzioso con alcune categorie”.

Dunque, adagiamoci pure su questo percorso, appiattiamoci pure su questa teoria, ma poi ne pagheremo un pesante dazio.

Pratiche improntate alle più grandiose intenzioni – scrivono Foss e Klein – in realtà possono affermarsi perché allineate con gli interessi di alcuni attori particolari: amministratori delegati in cerca di un posto al sole, gestori professionisti della diversità. Tali interessi non necessariamente coincidono con quelli dell’impresa o degli azionisti”.

E’ davvero interessante constatare come “Le stesse persone che un paio di generazioni fa avrebbero considerato le imprese come il campo di battaglia della lotta tra capitale e lavoro, oggi ritengono che debbano essere il luogo dove si sanano conflitti sociali ancora più profondi. Così finiscono per farsi carico di questioni ben più grandi di loro che dovrebbero riguardare la società tutta”.

Nel medio termine – scrive Alberto Mingardi sul Corriere della Sera – non è detto che tutto ciò vada a vantaggio della profittabilità e forse neanche della serenità degli uffici e degli stabilimenti”.

Svegliamoci dal torpore del facile ma insidioso conformismo del Woke e parliamone di più e in modo più approfondito.

Dobbiamo arginare intellettualmente e poi concretamente, i principi di questa nuova filosofia apparentemente condivisibili, ma sostanzialmente distruttivi.

Si apra il dibattito almeno …

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.