Adesso il “cerchio” sembra completato.

L’obiettivo raggiunto.

La trappola, più o meno nascosta, evidente.

La rivoluzione digitale, il nuovo modello di business del commercio on-line, ci sta conducendo, quasi senza accorgercene, a nuove forme di schiavismo.

Sì proprio schiavismo, avete letto bene: non così evidente e percepibile, come quello dell’icona degli schiavi neri che, in catene, vengono scaricati nelle piantagioni di tabacco o che al mercato, in piazza, vengono comprati all’asta o scartati dai boss dell’odierno caporalato.

Una schiavitù più sottile, quasi suggestiva, che nasce paradossalmente proprio da una apparente scelta della vittima.

Dal candidato schiavo che, angosciato, normalmente, dalla perdita del posto di lavoro subordinato, si fa irretire da una narrazione nuova e potente che lo porta a scegliere, con più o meno consapevolezza, la viadell’inferno che gli viene magnificata e proposta. La sfida di diventare un imprenditore di sé stesso!

Di riprendersi la sua vita, il suo tempo.

Di dare sfogo finalmente al suo talento boicottato finora dalle regole oppressive della fabbrica tradizionale.

Quella che ha chiuso o ridotto gli organici, sbattendolo sul marciapiede della disoccupazione, della solitudine, soprattutto della perdita di dignità.

Sto parlando delle indiscrezioni che a intermittenza iniziano ad uscire con riguardo alle figure professionali che parrebbe selezionare e privilegiare, Amazon, il leader mondiale del trasporto e della logistica a valle del commercio elettronico.

Lo specialista della consegna dei pacchi in un tempo sempre più breve, più stressato, più “stupidamente” vicino al momento dell’ordine di acquisto.

Riccardo Luna ha aperto il forellino della diga e, per la prima volta, ha raccontato sulle colonne di Repubblica come Amazon abbia iniziato una campagna di selezione di ex militari, pronti ad assumere il ruolo di manager responsabili del controllo dell’intera filiera logistica e della spedizione del gruppo.

Un bisogno quindi di personale con attitudini di comando, di rigore, di ordine tipici del mondo militare.

Su Linkedin, ai primi di febbraio di quest’anno, è apparso infatti il primo annuncio di Amazon mirato alla ricerca dei responsabili delle nuove piattaforme di logistica (magazzino e spedizioni) di Rovigo e Colleferro.

Privilegiati nell’assunzione, saranno i soggetti con un C.V. militare.

Amazon detiene più del 50% della quota del mercato delle spedizioni in Italia; ha 6900 dipendenti, 1000 addetti al call center di Cagliari. 23 magazzini, sempre più situati vicino all’utenza finale per gestire al meglio la consegna “dell’ultimo miglio” di tutti gli ordini originati dal commercio elettronico.

Per efficientare “la macchina”, renderla sempre più profittevole, ci vuole evidentemente “un clima da caserma”, una organizzazione meticolosa “di tipo militare”.

Il gioco è dunque fatto!

La new economy genera nuova occupazione. Crea valore nuovo e innovativo!

Ai vecchi e datati dipendenti con il contratto a tempo indeterminato, subentrano giovani imprenditorini, pronti, con i loro furgoni, ad essere i nuovi “arditi” del terzo millennio. Finalmente sgravati dai lavori ripetitivi ed alienanti della fabbrica che li ha “dismessi” e entusiasti nel buttarsi nella competizione del nuovo capitalismo 4.0.

Di qui, da questo apparente quadro idilliaco e moderno, nasce proprio la schiavitù del nuovo modello di business, venduto come la trionfale sfida dei nuovi capitalisti.

Chi è riuscito a fornirci un quadro veritiero e nello stesso tempo tragico ma efficacissimo di questa situazione è stato il registra cinematografico Ken Loach che, con il suo ultimo film “Sorry we missed you” ci accompagna a scoprire l’inferno quotidiano della vita di uno spedizioniere, abitante di Newcastle , una provincia-periferia inglese.

Nel film, il protagonista, lasciato a casa dal suo precedente  datore di lavoro, dopo l’affascinazione sulla nuova opportunità di impiego, ha dovuto comprare, di tasca propria, indebitandosi, un furgone bianco per poter andare in giro a consegnare pacchi “senza fermarsi mai”, sotto il controllo di uno scanner satellitare – denominato “la pistola”! – che registra tutto e che se il nuovo imprenditorino tarda a ripartire dopo una consegna, comincia ad emettere degli inquietanti “bip bip”.

Il nostro “eroe” è costretto a portarsi nel bagagliaio una bottiglia di plastica vuota per fare la pipì senza perdere del tempo.

Anche la moglie lavora nello stesso modello organizzativo: fa la badante, assiste anziani e malati a domicilio, viene remunerata a visita da una società di servizi che la paga in funzione di quante visite riesce ad effettuare durante la giornata. Una delle sue clienti è stata una vecchia sindacalista, protagonista degli scioperi dei minatori degli anni ’70-’80. E’ tragicomico il dialogo tra la paziente, ex sindacalista, e la moglie del protagonista del film quando la prima scopre che la sua brava badante non ha un orario fisso e ha un contratto talmente flessibile da integrare la fattispecie del contratto a cottimo.

La storia che Ken Loach ci racconta è quella di un povero padre di famiglia che accetta questa sfida per la propria famiglia, per non farle pagare il prezzo della sua disoccupazione.

È invece durante tutto il dipanarsi della narrazione è proprio questa sfida che lo rende nervoso, stressato, assente, stanco… Insomma un padre peggiore di prima che fa saltare i difficili equilibri di una famiglia fino a quel giorno bella, unita e forte.

Nel corso della storia la moglie e i figli gli rimproverano questo suo comportamento e di qui nasce il titolo “We missed you”.

Il figlio maschio rischia di diventare un teppista di strada, la figlia, undicenne, entra in una crisi psicologica da analista.

La moglie, costretta a vendere la sua utilitaria per finanziare le rate di acquisto del furgone del marito, si esaurisce per stanchezza e frustrazione. Entra in una fase di conflitto con questo marito assente e lontano, tutto coinvolto e “ucciso” da questo lavoro che lo angoscia ogni giorno di più per i suoi tempi e per le sue modalità di esecuzione.

Il nostro eroe viene anche picchiato e ferito durante una rapina proprio al suo furgone ma, con una costola rotta e il viso tumefatto, si rimette alla guida del suo camioncino disperatamente attaccato all’unica cosa che gli dà una speranza di sopravvivenza.

Uno spaccato terrificante di come vivono i nuovi schiavi 4.0, spinti alla follia di una vita senza senso e senza più affetti, da un modello di lavoro e di guadagno assolutamente folli e di tipo schiavista.

Una esagerazione?

Lo sceneggiatore del film, Paul Laverty, un collaboratore storico di Ken Loach, garantisce di no: “Con tutte le storie tremende che abbiamo raccolto – ha detto a Riccardo Staglianò sul Venerdì di Repubblica – avremmo potuto fare un film dieci volte più drammatico… Quello che mi ha affascinato di questa storia è il linguaggio dei contratti dei fattorini. Non ti assumono più ma ti “prendono a bordo”, non prendi un “salario” ma una “commissione”. Dopo un po’ capisci che non è casuale: chi ha deciso quel gergo, inventato con la propaganda? Scavi e scopri che Amazon paga psicologi per convincere i dipendenti dei vantaggi di lavorare in un posto non sindacalizzato. C’è tutta una retorica sulla libertà che fa sì, ad esempio, che sulla legge californiana a favore dei lavoratori della GIG Economy si vorrà tenere un referendum. In nome della libertà dai sindacati.”

Quando gli si pone la domanda: cosa possono fare questi nuovi precari per difendersi? Laverty risponde: “Se rimangono isolati sono fottuti: devono mettersi insieme, organizzarsi. Alcuni autisti lo stanno facendo. Ma bisogna essere creativi: non basta mettere i lavoratori contro le aziende, serve una intera comunità solidale fatta di autisti di bus, studenti, gruppi religiosi, tutti noi. Da questo punto di vista penso che il film possa essere utile per far capire ai consumatori che hanno un ruolo da giocare”.

Già, la domanda che dobbiamo farci di fronte a questa tragedia sociale ed umana è come reagire, come evitare il peggio di questa deriva apparentemente irreversibile.

Possiamo, per esempio, da consumatori, ma anche da cittadini dotati di una responsabilità sociale, incominciare a non pretendere “stupide” efficienze da parte di coloro che ci devono consegnare i prodotti ordinati sulle piattaforme dell’e-commerce. Anche se una pizza ci arrivasse in 30 minuti invece che nei promessi 10, non cascherebbe il mondo e non subiremmo nessun tipo di disagio o danno.

Incominceremmo invece a dare dei segnali precisi a coloro che stanno realizzando un modello di business che è contrario ad un principio etico basilare per una coesistenza pacifica delle nostre comunità: lo schiavismo è stato abolito da tanti anni!

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