Quante volte nelle ultime settimane abbiamo “girato la testa da un’altra parte” leggendo sui giornali notizie sull’escalation militare tra Cina e Taiwan? 

Quante volte, troppe a nostro avviso, abbiamo pensato che questa crisi accadesse lontano da noi, tra popoli che conosciamo ma che hanno destini e interessi diversi dai nostri? 

Quante volte abbiamo consolidato dentro di noi un pensiero miope e provinciale attestante la nostra incapacità di capire come nel nuovo mondo globalizzato, i conflitti possibili tra due nazioni anche lontane dai nostri confini geografici, possano avere immediate ripercussioni non solo sulla nostra sicurezza ma soprattutto sulla nostra economia.

Siamo molto più preoccupati della crisi Ucraina che non di quella cinese a Taiwan. Per certi versi è comprensibile, per altri meno.

Ci riferiamo naturalmente non solo al nostro Paese ma a tutta l’Europa, a tutti i cittadini europei.

A quest’Europa, ben diversa da quella immaginata dai firmatari del manifesto di Ventotene, che lamenta sempre di più una progressiva perdita di centralità nella politica internazionale e subisce un costante svuotamento dei suoi valori, della sua cultura, del suo ruolo nei destini della storia del nostro pianeta.

Ebbene, proprio la constatazione dell’ormai inesorabile Interdipendenza tra le varie nazioni del mondo in una globalizzazione, che potrà piacere o non piacere, ma che oggi “detta le regole del gioco” economico e sociale, ha costretto, finalmente diciamo noi, Bruxelles a scendere in campo. 

Ad avviare un progetto di tutela del ruolo dell’economia dell’Europa nel mondo che costituisce un importante segnale di inversione di rotta.

Almeno questo è l’auspicio.

Non più l’adozione di provvedimenti “tampone” mirati a difendere, normalmente in ritardo, un attacco da parte dei competitor internazionali, ma la stesura di un vero e proprio piano di investimento per ridare centralità al continente europeo in una delle grandi sfide della trasformazione digitale in atto: la produzione dei microchip.

Il European Chips Act, lanciato ufficialmente dalla commissione europea la scorsa settimana, rappresenta un progetto che mette sul tavolo, per i prossimi dieci anni, 50 miliardi di euro di fondi pubblici per finanziare progetti di ricerca e costruire in Europa “tre-cinque mega fabbriche“.

Per capire meglio il contesto di mercato dei semiconduttori, dobbiamo fare un passo indietro e inquadrare l’evoluzione di questa industria negli ultimi anni.

Negli anni ’90 l’Europa produceva il 20% del proprio fabbisogno di microchip, oggi è scesa al 10%.

Importiamo  l’80% dei Semiconduttori dall’Asia e circa il 60% soltanto da Taiwan.

Una vera e propria schiavitù economica: l’evidenziazione di un rischio enorme in termini di possibile black out. 

Se Taiwan, per lo scoppio, ad esempio, della crisi con la Cina, non dovesse più essere in grado di esportare semiconduttori, nel giro di 2-3 settimane si bloccherebbe completamente il nostro sistema industriale europeo.

Le fabbriche che producono automobili, frigoriferi, quelle che si occupano di telecomunicazioni, soltanto per citare gli esempi più clamorosi, sarebbero costrette a chiudere i battenti, interrompere la produzione, lasciando gli operai a casa e i clienti senza prodotti.

Un vero e proprio disastro di cui l’opinione pubblica non ha assolutamente consapevolezza!

 L’obiettivo dello European Chips Act è proprio quello di raddoppiare la quota di produzione europea entro il 2030, portandola al 20%.

Il che significa che la produzione non dovrà semplicemente raddoppiare bensì quadruplicare dato che il valore del mercato globale raddoppierà nel giro dei prossimi 10 anni.

In Europa, ha sottolineato il commissario europeo Thierry Breton, esiste una consolidata esperienza ed eccellenza nel mondo della ricerca dei semi conduttori. Questa struttura diversificata sul territorio continentale aiuterà lo sviluppo del programma di nuovi e importanti insediamenti produttivi.

Come mai si è giunti a questa paradossale situazione in cui gli europei, pur apprezzati in tutto il mondo per le loro capacità di ricerca e sviluppo di semi conduttori, si sono ritrovati senza fabbriche e quindi senza produzione di microchip, delegando sostanzialmente tutto il mercato ai paesi asiatici? 

Le ragioni sono variegate ma certamente negli ultimi 10 anni si è sviluppato in Europa un modello organizzativo che ha immaginato un impresa senza… la fabbrica. Un modello di azienda con tanti camici bianchi e pochissimi operai. Con centri di eccellenza per la ricerca ma senza capannoni per produrre.

Sono stati così delocalizzate le produzioni e la Cina, il Messico e soprattutto Taiwan, paesi con un basso costo della manodopera e con eccellenze nella ricerca e sviluppo, hanno incominciato ad assumere il ruolo di fabbriche mondiali dei semiconduttori.

Di qui è partita la riduzione delle produzioni in Europa a vantaggio di questi paesi.

Il piano europeo è articolato su tre verticali:

(i) la prima riguarda la ricerca nella quale Bruxelles investirà 12 miliardi di euro di fondi pubblici, sei raccolti dal bilancio europeo e gli altri attraverso il bilancio dei singoli Stati membri. I 12 miliardi serviranno per finanziare le linee guida per fabbricare i componenti con tecnologie all’avanguardia. 

(ii) La seconda verticale concentrerà una parte rilevante dell’investimento pubblico sull’aumento della capacità produttiva e quindi sulla costruzione di tre-cinque grandi fabbriche in Europa, contando su una revisione della normativa sugli Aiuti di Stato, revisione che consentirà ai governi di incentivare gli imprenditori interessati a sviluppare tale investimento sul loro territorio. Questo aspetto dell’European Chips Act costituisce ancora uno dei punti aperti, da sciogliere tra i membri dell’Unione Europea: soprattutto i più piccoli sono contrari a questa ipotesi di deroga alle regole sugli Aiuti di Stato in quanto ritengono che favorisca in maniera palese i Paesi più forti dell’UE in grado, con questa deroga, di offrire alle imprese interessate pacchetti economici, finanziari e fiscali molto più attraenti.

(iii) Il terzo verticale è costituito da un fondo, cogestito con la Bei , da 5 miliardi per sostenere investimenti nelle start-up mirate a coprire ruoli rilevanti nella filiera dei semiconduttori.

Per rispondere alle preoccupazioni e critiche dei paesi membri “piccoli”, la Presidente Ursula von der Leyen ha voluto sottolineare che la deroga alle regole sugli Aiuti di Stato sarà molto rigorosa e tale da non alterare l’omogeneità dei mercati all’interno della UE.

Non si pensi di poter fare i furbi: i controlli saranno molto severi.

Finalmente dunque Bruxelles, come dicevamo, “batte un colpo” e aspira a riassestare la sua strategia e il suo posizionamento nella catena di approvvigionamento mondiale del settore.

I microchip sono il petrolio del futuro, ha ricordato Breton, e saranno fondamentali nella transizione digitale. “Per la prima volta – ha voluto sottolineare il commissario europeo – facciamo evolvere le nostre regole sugli Aiuti di Stato e per certi versi adattiamo anche la nostra politica commerciale. Un qualcosa di inedito nella storia della Commissione!”.

Era ora, ci permettiamo di aggiungere!

Una sensazione epidermica, per concludere: questa grande opportunità per tutti gli stati membri e soprattutto per l’Italia, non è stata colta e apprezzata nel nostro Paese.

Ci giochiamo la possibilità di avere nel nostro territorio una delle mega fabbriche previste nel Chips Act: quindi incremento dell’occupazione, creazione di valore, aumento del  gettito fiscale. Sarebbe davvero il caso di mettere il massimo focus su questo programma per valorizzarlo al meglio ma anche, nel contempo, di informare gli italiani che il progetto ci riguarda direttamente, merita attenzione e fiducia, arriva dalla tanto criticata Bruxelles dei “ragionieri” ma, finalmente, va nella direzione giusta, quella di ridare centralità prospettica al nostro continente in vista delle sfide mondiali, speriamo non militari ma economiche, dei prossimi anni.

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