Non si è alzato! È fermo intorno ai 300 punti.

Nella disordinata follia dell’ignoranza lessicale che ci accompagna quotidianamente, anche il mantra dello spread ne risente. Tra il semplicismo e il presentismo (che tradotti significano: “Occupiamoci dell’Oggi e spieghiamolo in modo semplice!”) in fondo anche lo spread che non si muove da quota 300, può apparire una buona notizia. Un segnale che resistiamo. Che il Governo del Cambiamento non ci ha portati sull’orlo del precipizio come ha scritto di recente Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera. Ce la faremo anche questa volta … vedrete, sembrano dirci tutti i giorni i due Vice Presidenti del Consiglio che ci sorridono attraverso i loro imbarazzanti selfie.

E invece, cari lettori, non è vero: è una fake news, di tipo “buonista” che ci illude di poter passare anche “questa nuttata”, come chioserebbe il grande Eduardo De Filippo.

Pronti a dire in maniera ripetitiva e quasi ossessiva, comunque, che in caso di sconfitta, con uno spread che sale fino a quota 400/500 la colpa è stata di Bruxelles, della stampa “ostile e bugiarda”, del complotto pluto-giudaico-massonico contro il nostro paese. Da sabato scorso si è aggiunto un nuovo nemico: la borghesia che ha incominciato a scendere in piazza protestando pacificamente proprio contro il Governo del Cambiamento.

C’è qualcuno però che ci dimostra che la situazione NON è questa; che quota 300 non è sostenibile; che se lo spread non scende e anche in tempi stretti, il nostro sistema bancario e industriale rischia di collassare.

È un ente autorevole, indipendente, stimato dai mercati: stiamo parlando della CGIA di Mestre, l’Associazione degli Artigiani e delle Piccole Imprese della cittadina che confina con Venezia.

L’Istituto di ricerca mestrino ha analizzato la situazione studiando cosa succede nella vita di tutti i giorni quando si deve convivere con uno spread stabilmente sopra i 300 punti di differenza nel rendimento tra i nostri titoli di stato e quelli tedeschi. L’ufficio studi ha appena pubblicato i risultati di una sua elaborazione matematica che dimostra come uno spread alto renda difficile la vita delle imprese.

Pickett ha potuto avere accesso a questa ricerca e ve ne offre una sintesi succosa.

La CGIA ha analizzato sia la situazione di liquidità delle aziende, sia il peso dei titoli di stato e il numero di mutui per l’acquisto della casa in capo alle nostre famiglie.

Se circa la metà delle imprese italiane (2.5 milioni) ha contratto 680 miliardi di euro di prestiti bancari (il dato è quello del giugno 2018) per contro, il 9.3% delle famiglie italiane (pari a 2.4 milioni) sta pagando un mutuo per l’acquisto della prima casa e un altro 6.1% (pari a 1.6 milioni di famiglie) ha nel portafoglio titoli di stato. Dunque, questa è la prima conclusione del rapporto della CGIA, qualsiasi variazione sia del costo del denaro sia del rendimento dei titoli di stato contamina pesantemente il bilancio mensile, sia delle imprese italiane sia delle famiglie italiane.

L’ammontare dei BOT e dei CCT/BTP in possesso delle famiglie italiane è di 300 miliardi di euro (fonte Banca d’Italia aggiornata al 31.12.2017) mentre l’indebitamento per mutui collegati all’acquisto della casa ammonta a circa 340 miliardi di euro. Di conseguenza i più esposti in termini assoluti sono gli imprenditori che si troveranno a pagare di più il denaro ottenuto in prestito dalle banche e in prospettiva avranno meno credito a disposizione perché per le banche sarà più difficile erogarlo. Dal 2011 la contrazione dei prestiti al sistema delle imprese italiane è stata rilevante pari quasi a 250 miliardi di euro. In parte tale riduzione è dovuta alla diminuzione della domanda e all’aumento delle sofferenze originate dalla crisi: la ragione principale, però, risiede nell’applicazione di regole e parametri sull’erogazione dei crediti, imposte dalla BCE, dalla legislazione europea e da quella italiana, che si sono dimostrate fuori dalla realtà e comunque “contro” il bisogno del mondo imprenditoriale.

La CGIA, nel suo report ci spiega che senza le banche, soprattutto in Italia, non si può fare economia. Il nostro paese è costituito soprattutto da piccole e micro imprese tradizionalmente sotto capitalizzate e a corto di liquidità. Il 98% ha meno di 20 dipendenti. Capirete quindi che il ruolo delle banche diventa centrale sia per dare ossigeno al sistema, sia per creare le condizioni per rilanciare la situazione economica che sta rallentando paurosamente.

La CGIA evidenzia anche che negli ultimi anni è aumentata sensibilmente nei bilanci degli istituti di credito l’incidenza delle commissioni nette (l’insieme dei ricavi ottenuti dall’addebito della seguente lista di costi: costi per la tenuta del conto corrente; costi dei servizi bancomat-carte di credito; costi dei servizi di incasso-pagamento; costi delle gestioni patrimoniali; costi per l’intermediazione e il collocamento titoli, ecc.) rispetto ai ricavi derivanti dai crediti. Ormai siamo intorno al 40%, livello non riscontrabile in nessun altro paese europeo.

Cosa significa? Che una parte sempre maggiore del fatturato delle banche è riconducibile ad attività di puro servizio e non alla vendita della materia prima denaro.

Questo il quadro che emerge dallo studio della CGIA di Mestre.

Sarebbe necessario, quindi, uscire al più presto dalla bolla dell’ignoranza del “tutto va bene”. O il Governo del Cambiamento cambia strategia, negozia con Bruxelles una modifica condivisa al DEF, ridando così fiducia ai mercati e ai nostri creditori, oppure rischiamo il “game over” … siamo fuori dai giochi! Con un costo-prezzo per il paese inimmaginabile.

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