Mentre stiamo scrivendo questo articolo, nel nostro Paese, al nord o al sud, si sta probabilmente commettendo un’altra atroce violenza su una donna.

Dal 1° gennaio, ogni tre giorni, viene uccisa una vittima per motivi più o  meno legati ad una cultura ingiustificabile dei maschi.

Sembra che un forellino abbia negli ultimi mesi fatto crollare una diga: la contabilità delle violenze e degli assassini è aumentata in maniera incredibile.

In più, anche qui con una cadenza quasi quotidiana, siamo costretti ad assistere a violenze singole o di gruppo, di natura sessuale, su ragazze che sono state abbindolate con alcool o droghe sempre più pesanti, per arrivare all’obiettivo dello stupro.

Quello che troviamo inammissibile, oltre ai dati oggettivi di quello che ci sta succedendo davanti agli occhi e che sarebbe interessante comparare con quello che succede in altri paesi europei, è la reazione di una parte dei nostri politici.

L’ultimo dibattito in corso, in questi giorni, prendendo spunto dagli ultimi episodi di femminicidi o di violenze sessuali commesse da un vero e proprio branco di ragazzotti a Palermo, è tornato ad invocare una legge più severa o addirittura strumenti come la castrazione chimica.

Come se le leggi non ci fossero e come se il quadro normativo necessitasse di ulteriori provvedimenti legislativi che faticano sempre e comunque ad essere completati in un Parlamento caratterizzato da una forte conflittualità.

A nostro avviso, infatti, come scrive anche il penalista Cataldo Intrieri su Linkiesta “La giustizia in Italia è già fornita di leggi stringenti e tutela per le vittime”, bisognerebbe concentrarci, invece di fare della facile demagogia, su due aspetti fondamentali per una vera lotta contro questo genere di reati: maggiori risorse economiche per gli addetti ai lavori e una esecutività della pena certa e garantita.

Non è possibile ogni volta che si verifica una violenza di genere, ammassarsi nel grande coro delle grida di dolore, di disprezzo, di allarme: bisognerebbe semplicemente rafforzare l’entità dei fondi destinati alla prevenzione e monitoraggio di questo genere di reati.

Ci riferiamo, ad esempio, al finanziamento dei centri di volontariato che svolgono una funzione determinante nell’assistenza e nel supporto di donne vittime di minacce o di violenza fisica da parte del marito, del compagno, dell’ex innamorato.

Ci riferiamo, di nuovo con un esempio apparentemente paradossale, alla mancanza di strumenti e di personale idoneo nelle varie questure o stazioni dei carabinieri sparse nel territorio.

Da quanto ci risulta, lo Stato è indietro di anni nel pagamento dei contributi di questi centri di assistenza che possono dunque proseguire la loro funzione essenziale soltanto grazie alla generosità, determinazione e solidarietà dei volontari che, pur in arretrato sull’incasso dei loro dovuti compensi, continuano a prestare la loro opera.

Stesso ragionamento vale per dei coraggiosi ed “eroici” poliziotti e carabinieri che riescono ad intervenire in molti casi pur sprovvisti di adeguati strumenti o di risorse per svolgere il loro delicato ma fondamentale mestiere.

Il Governo deve decidere: se questa è una priorità nazionale per la tutela di tutti i cittadini, bisogna che sia combattuta con risorse economiche e professionali adeguate. Non c’è alternativa!

Pur in un momento politico ed economico in cui sarà difficile costruire la nuova Legge Finanziaria per il prossimo anno, il Governo deve inserire nella lista delle priorità anche maggiori risorse per l’ordine pubblico, per la lotta contro la violenza fisica, psicologica ed economica nei confronti delle donne.

In secondo luogo, la magistratura deve svolgere il suo compito fondamentale con la giusta e professionale attenzione nei confronti di imputati che, naturalmente, una volta commesso l’atroce reato, cercano di difendersi nei modi più surreali e sorprendenti.

La recente sentenza del Tribunale di Firenze ha fatto gridare allo scandalo anche alla gran parte della stessa magistratura.

L’esecutività della pena costituisce uno dei più importanti deterrenti contro l’emulazione di questo tipo di reati.

E’ inutile quindi continuare ad invocare nuove leggi e pene più severe fino alla castrazione chimica, come rispolverata da Salvini.

Oggi, in Italia, la violenza di gruppo è punita con una pena che va da 8 a 14 anni di galera senza contare le aggravanti.

I condannati non hanno diritto ad usufruire di benefici come le misure alternative al carcere per l’esecuzione della pena se non dopo aver scontato almeno la metà della pena dietro le sbarre.

Un autorevole giudice della Cassazione, Paola De Nicola Travaglini, specialista di questa delicatissima materia, nel criticare la sentenza di Firenze, ha ricordato la consolidata giurisprudenza della Cassazione secondo cui il consenso della vittima è sempre presunto e costituisce anzi un requisito di legge: ciò esclude che l’imputato possa eccepire un errore di percezione sul consenso della donna.

La donna – ha detto il magistrato – non deve dimostrare nulla: deve solo dichiarare cos’è accaduto e se lo ha voluto o no”.

Se questo è lo stato dell’arte nel nostro Paese, Cataldo Intrieri si chiede: “Se servano veramente nuove e più draconiane misure quando già esiste una struttura normativa adeguata”.

Il campo del diritto penale cui troppo spesso si delega la regolamentazione dei rapporti umani compresi quelli più intimi – ha scritto proprio Intrieri –non può risolvere un gravissimo problema che affonda nell’educazione sbagliata di una società. Una corrente limacciosa di pregiudizi che affonda nell’animo di buona parte della popolazione e che il grande successo delle inqualificabili idee di un militare in libera uscita ha fatto venire a galla. Ritenere che sia solo un problema di repessione è un rimedio peggiore del male”.

E, aggiungiamo noi, basterebbe destinare più fondi alla prevenzione e monitoraggio di questo tipo di reati, con una magistratura che “tenesse il  timone dritto”, pur nel rispetto ovviamente nei diritti della difesa nel dar vita a sentenze la cui esecutività sia garantita.

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