Che fare? Come non perderci d’animo? Come coltivare ancora un briciolo di curiosità proattiva di fronte ad una rivoluzione in atto di cui ci sfuggono contorni, opportunità, rischi, certezze prospettiche?

Siamo bombardati, quasi quotidianamente, da grida di allarme o di dolore oppure da proclami di un futuro migliore in un marasma continuo di indagini di mercato, di studi universitari, di testimonianze di guru del settore che quasi si “divertono” a sballottarci da un sentimento di angoscia profonda del “tutto è perduto” ad una ebbrezza, quasi salutistica, di un domani migliore caratterizzato da una qualità della vita non paragonabile a quella odierna. Con macchine e robot a svolgere tutte quelle mansioni faticose, noiose e ripetitive che non ci piacciono per niente e che non vediamo l’ora di delegare a qualcun altro: appunto i soggetti partoriti dall’Intelligenza Artificiale.

I protagonisti del dibattito su questa rivoluzione sembrano appartenere a tre filoni di pensiero: i catastrofisti; gli ottimisti imperturbabili; i visionari “pazzoidi”.

Si iscrivono alla prima categoria coloro che continuano ad immaginare un futuro, neanche troppo lontano, con il 30% – 50% di posti di lavoro in meno, file di disoccupati in tutti i paesi del mondo, più robot che umani già tra una ventina d’anni a vivere/vegetare nel mondo.

Fanno parte del secondo filone gli ottimisti “a prescindere”: quelli che intravedono in questa rivoluzione uno dei tanti passi evolutivi del genere umano che saprà ricreare comunque le condizioni, come già accaduto in passato durante analoghe trasformazioni industriali, economiche e sociali, per ritrovare un equilibrio etico e produttivo tale da consentire una convivenza sociale migliore e di qualità superiore a quella attuale.

Sono invece appartenenti al “partito” dei visionari talentuosi, per alcuni “pazzoidi”, tutto genio e sregolatezza, coloro che stanno già disegnando, scrivendo e progettando una modalità di vita e di coesistenza tra gli umani che sarà farcita da alcuni ingredienti ad oggi soltanto intuiti e domani invece concretamente realizzati, che saranno proprio i robot. Quelle macchine che oggi, nell’industria 4.0, si limitano ad attività semplici e ripetitive (ricordate il classico caso del robot magazziniere, oggetto di un intervento di Pickett di qualche mese fa) e che domani, incominciando dall’industria militare, assumeranno un ruolo sempre più decisivo nelle nostre comunità. Quelle macchine che, impostate da algoritmi sempre più complessi e articolati, contamineranno le nostre esistenze.

Pickett, proprio 2 settimane fa, si era soffermato su alcuni aspetti di questo controverso dibattito sintetizzando le posizioni esposte sia da alcuni rappresentanti del G7 in corso a Torino, sia di alcuni professori americani in tournée in Italia per incontrare gli studenti di alcuni nostri poli di eccellenza formativa. Questa volta Pickett vorrebbe socializzarvi il contenuto di due conferenze tenute, praticamente nelle stesse ore, a Milano e a Roma, da tre autorevoli esponenti della cosiddetta Intelligenza Artificiale. Impressionante è constatare come tre professori di università che lavorano in centri di ricerca eccellenti e rappresentano il meglio dell’innovazione a livello mondiale, possano dipingere il contenuto e le potenzialità di questa rivoluzione in modo opposto, lasciando l’auditorio sbigottito, contento o scontento a seconda delle opinioni personali o delle prospettive per il proprio futuro. Ci siamo infatti trovati di fronte, come vedremo tra poco, a due tesi, la prima rappresentata dal prof. Jerry Kaplan dell’Institute of International Studies della Stanford University della California, assolutamente confidente in un futuro delle nostre comunità e soprattutto dei nostri giovani pieno di opportunità, occasioni di nuovi lavori, sfide per un miglioramento individuale e globale della nostra convivenza. La seconda, esposta dai due esperti internazionali americani della Singularity University, la più nota istituzione californiana del settore, la professoressa Divya Chander, neuro scienziata e il professore Neil Jacobstein, una vecchia conoscenza dei lettori di Pickett, specialista appunto in studi sull’Intelligenza Artificiale: “la rivoluzione è già in corso – dicono i due cattedratici americani – siamo già esseri umani “aumentati” in simbiosi con smartphone e laptop. Poco importa se le protesi elettroniche siano tascabili (come accade oggi) o se diverranno micro-impianti nel nostro cervello: l’importante è che non ci lascino cicatrici, se no saremo costretti a fare degli update periodici di memorie e programmi, con ulteriori interventi invasivi sulla nostra corteccia celebrale”

Sembrano battute di spirito ma effettivamente i due guru dell’Intelligenza Artificiale le espongono con il sorriso sulle labbra quasi a voler sdrammatizzare la delicatezza del problema. In ogni caso, ribadiscono Chander e Jacobstein, la rivoluzione porterà disoccupazione e il focus che le classi dirigenti politiche mondiali dovranno mettere sul problema sarà proprio quello di concentrarsi sulla formazione. Chi saprà investire in forme di replacement in maniera moderna ed efficace, non sbagliando il target delle nuove tipologie di mestieri, acquisirà da un lato un fattore competitivo rilevante potendo contare su umani pronti a rispondere alle nuove richieste dell’industria 4.0. E, dall’altra, dare risposte concrete e positive al malessere degli umani non più occupati. I paesi che invece non capiranno la sfida, non si occuperanno di formazione, non si attrezzeranno per offrire una “ciambella di salvataggio” agli ex occupati di lavori ormai affidati interamente alle macchine, avranno grandi problemi di coesione sociale, di gestione di un malessere proveniente dai nuovi disoccupati che non potrà essere gestito e riassorbito soltanto con slogan politici o transitori assegni di disoccupazione.

Kaplan, invece, parlando alla Università LUISS di Roma ad un gruppo di studenti affascinati dall’innovazione e dagli impatti che saranno partoriti dall’ Intelligenza Artificiale, ha lanciato messaggi estremamente ottimistici: “è davvero possibile che i robot si ribellino e prendano il sopravvento sugli esseri umani? Le nuove macchine potranno pensare, prendere decisioni e provare emozioni? Non c’è alcun rischio che tutto ciò possa avvenire -osserva il professore americano – l’unico aspetto su cui discutere seriamente sarà l’impatto che questa rivoluzione potrà avere nei prossimi anni sulla occupazione mondiale. Non ho alcun timore dei robot. In molti pensano che potranno essere superiori all’uomo ma solo perché è quello che abbiamo visto nei film di fantascienza. La realtà è molto diversa. L’intelligenza artificiale ci può soltanto aiutare. Le macchine saranno semplicemente degli imitatori intelligenti degli uomini ma senza indipendenza.” Kaplan si è poi concesso una battuta scherzosa con l’uditorio romano : “Camminando per Roma, ho capito che non dovrete mai preoccuparvi delle auto senza pilota. Con il traffico che c’è qui questa tecnologia non funzionerebbe affatto”. Dunque, secondo Kaplan, non dobbiamo preoccuparci di immaginare un futuro da semplici schiavi in mano ai nuovi dominatori artificiali: dobbiamo affrontare la sfida con coraggio con passione e con saggezza. Certo, studiando con serietà e creatività il tema del nuovo tipo di occupazione che si creerà a causa della innovazione di questa rivoluzione.

Di fronte agli scenari così delineati dai cosiddetti esperti, come possiamo reagire? Come possiamo ,da incompetenti, uscire dai buchi neri dell’ignoranza che normalmente è portatrice di paure e di angosce e invece transitare verso un status minimo di conoscenza che ci permetta di reagire in maniera saggia,, lucida e virtuosa a quello che ci sta venendo addosso? La distanza tra “chi sa” e, la maggioranza di noi, “chi non sa” oggi è enorme in materia di scenari prospettici scaturenti dalla rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale.  Un  rimedio, a modesto avviso di Pickett, potrebbe essere quello di tornare ai fondamentali: a continuare cioè  a coltivare la curiosità per tutto il mondo della ricerca che sta studiando questa rivoluzione e poi applicarci “sopra” un po’ di vecchio e sano buon senso condito con un po’ di esperienza e soprattutto con un po’ di consapevolezza su quanto sia importante e non replicabile attraverso mezzi meccanici, il PENSIERO quello che dovrebbe animare il nostro cervello e le nostre coscienze. La vera sfida, come stiamo vedendo anche nel concitato quotidiano confronto/scontro con i nostri smathphone o con tutte le nuove tecnologie di cui siamo già utilizzatori, è quello di non perdere, come umani, la centralità del rapporto. Dobbiamo continuare ad investire nel nostro ruolo attivo di utilizzatori della tecnologia e non rischiare invece di diventare semplicemente dei soggetti passivi di una tecnologia che, in tal caso, potrebbe davvero assumere il ruolo di driver della nostra vita quotidiana.
Questo è … banalmente… un primo tentativo di riflessione sul come vivere, reagire e valorizzare quello straordinario software che abbiamo sotto la nostra corteccia cerebrale e che si chiama cervello: un organo che non è stato pensato e progettato per subire soltanto l’influenza delle macchine ma, soprattutto, per idearle, realizzarle, gestirle ed utilizzarle nei limiti e con le finalità dettate dal PENSIERO.

Riflettiamoci sopra e riprendiamoci le nostre esistenze senza forme di inferiority complex o , peggio, di schiavismo passivo verso le scoperte della scienza. Il nostro ruolo e’ e deve essere centrale e direttivo….non sussidiario!

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