Il tema ormai non è il “Se” ma il “Quando“ Taiwan tornerà sotto Pechino. Xi Jinping (69 anni, al potere dal 2013) ha sostanzialmente ufficializzato che questa data non è poi così lontana. Il “Quando” non lo sa nessuno, forse oggi neanche lui, ma sul “Se” non ci sono più dubbi.
Guerrafondai Vs diplomatici: chi vincerà?
Quattro fattori incidono sul timing della decisione di Pechino, al di là del fatto, comune a molte autarchie, che intorno al Presidentissimo cinese si muovono due correnti di cortigiani. Si, proprio di cortigiani , non di consiglieri con pensieri autonomi. I cosiddetti “Guerrafondai”, (una parte cospicua dei militari anziani e una percentuale alta dei burocrati del partito, quelli sopravvissuti “della prima ora”) che spingono sull’acceleratore dell’invasione compiacendo l’ego del Capo. E poi, i “Diplomatici” (le gerarchie più giovani sia dell’esercito sia del partito) che sostengono l’attuale policy. Puntano a modificare le influenze politiche internazionali, con una tattica quasi “sotto traccia”. Vogliono portare la Cina , dal punto di vista economico, militare, e politico a diventare la leadership del nuovo mondo, non più diretto da Washington.
Una Cina che, attraverso la leva economica soprattutto, conquisti il consenso di sempre più numerosi Stati bisognosi di aiuti anche militari e disponibili a cambiare alleanze. Sta, d’altronde, succedendo sotto i nostri occhi da qualche anno questo cambiamento delle geomappe sia in Africa sia in America Latina sia nelle decine di staterelli delle isole del Pacifico. Una riedizione del Grande Gioco, insomma, con lo strumento diplomatico associato all’utilizzo sagace di società private cinesi per conquistare nuovi territori e nuovi “amici”. Con la rivitalizzazione, come abbiamo già scritto, del modello della storica Compagnia delle Indie, di ispirazione inglese, come strumento di colonizzazione meno invasivo e imbarazzante di quello istituzionale del governo di Pechino.
Chi prevarrà tra i due indirizzi? Dipenderà anche da come verranno sbrogliati i quattro nodi che citavamo prima che tengono sveglio Xi Jinping nei suoi sogni notturni di dominazione.
1) la lotta contro la pandemia e la sua efficacia in termini di risultati.
2) il rilancio dell’economia che , proprio a causa della pandemia , ha rallentato di parecchio la sua crescita, non centrando più gli obbiettivi politici del governo e creando intuibili malumori tra la gente.
3) le relazioni commerciali proprio con Taiwan. Oggi l’isola è il nono partner commerciale degli Stati Uniti e, soprattutto, è leader mondiale nella produzione dei microchip (i semiconduttori) con il 64% di quota nel mercato globale. Pechino continua ad importare tecnologia e ingegneri da Taipei e, nonostante le tensioni belliche, nel 2021 si è raggiunto il record nell’interscambio commerciale “tra le due Cine” con un aumento del 24.8% dell’export taiwanese trainato proprio dai microchip.
4) Last but not least…la rielezione di Xi al prossimo congresso del partito programmato per il novembre 2022.
I primi due fattori hanno contaminato parecchio quell’entusiasmo euforico che regnava in tutta la Cina continentale basato sul progresso senza freni e sull’aumento della ricchezza, anche personale, di ogni abitante del Paese.
Xi era considerato il protagonista di questo boom e del rilancio nazionalista del sogno della Grande Cina. Poteva finalmente, al posto degli amati-odiati cugini russi, sfidare l’America per la leadership del mondo. COVID, bolla immobiliare, caduta del Pil rischiano di rovinargli il sogno tanto agognato.
Tornano di attualità le bandierine rosse di Mao
La storia dell’umanità ci insegna che quando un dittatore ha una crisi interna di consenso, di solito si cerca velocemente un nemico esterno sul quale convogliare l’attenzione del suo popolo. Si sposta l’attenzione delle masse mugugnanti su altre questioni, normalmente facendo leva sul loro nazionalismo. Quello spirito identitario di conquista caratterizzato da adunate oceaniche nelle quali tornano di attualità le bandierine rosse di Mao come simbolo del rilancio della Cina Imperiale.
A novembre ci sono le elezioni
Un modo per distrarre i propri concittadini dai problemi economici irrisolti e “buttare la palla in avanti”. Per questo motivo il prossimo novembre Xi si gioca tutte le sue carte per una rielezione che gli garantirebbe un tempo più lungo per sciogliere i nodi oggi molto ingarbugliati. Meglio arrivarci, a quel congresso, con una guerra mediatica e informatica in corso con gli Stati Uniti. In cui gioca una sua importanza anche la più o meno tenuta dell’asse Pechino Mosca. Una guerra “parlata”, condita di manovre militari muscolari come quelle che abbiamo visto in questi giorni intorno a Taiwan, oppure, con l’isola riconquistata con una operazione militare?
Putin docet
Quest’ultima opzione presuppone una sconfitta militare e diplomatica americana e uno smacco per tutti i suoi alleati occidentali. Uno scenario possibile?
La vicenda Ucraina qualcosa ci deve insegnare. Non bisogna sottostimare i piani , anche folli, degli autocrati in difficoltà . Putin docet! Una via mediana potrebbe essere quella di una invasione , a medio termine , preceduta da un blocco navale e aereo proprio come quello che sta succedendo in questi giorni.
Sul piano militare non c’è storia
La sproporzione delle forze in campo è tale da non lasciare dubbi sull’esito del conflitto. Il sito Global Firepower ci fornisce un quadro chiarissimo della situazione. La marina dell’esercito popolare di liberazione cinese ha 777 navi contro le 117 di Taiwan. Due portaerei a zero, una porta elicotteri a zero, 79 sottomarini contro 4, 41 cacciatorpedinieri a 4, 49 fregate contro le 22 di Taiwan , 70 Corvette a 2. L’aviazione di Pechino possiede 3285 aerei da guerra a cui Taiwan ne oppone 741. 1200 caccia contro 288, 912 elicotteri contro 208, solo per citare alcuni dei principali numeri da valutare.
Chi rimarrebbe con le mani in mano in caso di invasione?
E’ vero che non tutte le forze cinesi sono schierabili nello stretto di Taiwan ma la differenza di potenza di fuoco e comunque evidentissima.
La riflessione di fondo è quindi un’altra. Ma gli americani, i giapponesi, i sud coreani e gli australiani rimarrebbero con “ le mani in mano” in caso di attacco cinese? Si limiterebbero a qualche protesta alle Nazioni Unite?
Ragionevolmente saremmo portati ad escluderlo. Per questo motivo, pensiamo sia meglio puntare sui “Diplomatici” al fine di rinviare, per quanto possibile, il D-Day.
Ci sono precedenti inquietanti
In tal caso si potrebbe negoziare , con più calma, una soluzione commerciale e politica del tema Taiwan. Il precedente di Hong Kong non aiuta ad essere ottimisti. Un altro precedente , invece, quello del trattato di Minsk del 5 settembre 2014 sul futuro dell’Ucraina e dei suoi confini, dovrebbe rappresentare una lezione e un monito su come si debba poi, dopo la firma di un accordo di “ tregua armata”, non dimenticarsi del problema lasciando alla “parte forte” la gestione del dopo.